Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

I bivi: un racconto di Francesca Tuzzi

Questo racconto fa parte della seconda call di Chiacchiere d’Inchiostro, un progetto pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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I bivi.

Maledetti.

Non li sopporto, mi mettono ansia.

È sempre stato così per me. 

Alle elementari, Lucia voleva che scegliessi tra lei e Federica. È finita che hanno fatto comunella e sono diventate amiche per la pelle, mentre io ero ancora lì, alle prese con la mia scelta.

Alle medie, ero combattuta tra Massimo e Ariano. C’è ancora il segno delle lacrime su pagine e pagine di quel diario consumato a forza di rileggere i vari pro e contro. È finita che Ariano è sparito e Massimo ha cominciato a collezionare ragazze come fossero figurine dell’album Panini. E pensare che non sapevano nemmeno della mia esistenza. Forse avrei dovuto menzionare prima questo dettaglio. Per onestà, devo dire che li avevo conosciuti in due occasioni diverse: il primo non si era neanche accorto di me, mentre con il secondo avevo scambiato giusto due battute, ma alla prima occasione utile si era volatilizzato. Quei due minuti, in totale, che avevo passato con l’uno e con l’altro avevano generato un intero anno di struggimenti e lotte interiori, nella malsana convinzione che fossi io quella a cui spettava una decisione.

Poi, ci fu il bivio delle superiori: liceo linguistico o istituto tecnico? Peccato che avessi poco da scervellarmi in questo caso: il liceo era a numero chiuso ed accedevano solo gli intelligentoni, quelli che superavano gli esami a pieni voti, ma io, intenta a disperarmi per le questioni di cuore, non avevo tempo né voglia di studiare e la mia misera sufficienza mi mandò dritta all’istituto tecnico, senza passare dal via. È finita bene, tutto sommato, perché quel percorso di studi mi ha poi permesso delle esperienze che probabilmente al linguistico non avrei avuto modo di fare.

A risollevare le mie sorti da eterna indecisa, comunque, ci pensò poi Andrea il quale, in quanto a decisioni, era un vero leader. Le prendeva tutte lui, le voleva tutte per sé. Decideva sempre, anche al posto mio. Nei sette anni della nostra relazione, non ebbi mai modo di scegliere qualcosa. Il che mi gettò nello sconforto quando lui scelse un’altra strada e mi piantò in asso, davanti all’ennesimo bivio: finisco qui o vado avanti? Con la vita, intendo. Troppo paurosa per pensare di farla finita, optai per la seconda chance e, bene o male, cominciai a ragionare con la mia testa, a cadere, a rialzarmi, come fanno i bimbi quando stanno imparando a camminare. Credo che quello fu il momento in cui iniziai a crescere. Grazie Andrea!

Ad ogni modo, l’avere più opzioni davanti ai miei occhi non ha mai smesso di crearmi inquietudine. Se al ristorante mi ritrovo un menù con dieci piatti, vado nel pallone; ma è ancora peggio quando ce ne sono solo due. Ho la sensazione che orientarmi su uno possa escludere definitivamente l’altro e quindi impedirmi di provare tutto.

Quando entro in una libreria, mi assale lo scoramento: non riuscirò mai a leggere tutti i libri.

La stessa cosa quando sono in procinto di organizzare un viaggio: ci sono talmente tanti posti che non ho ancora visitato che non mi basterà questa vita per riuscire nel mio intento.

A proposito di viaggi, ora mi trovo in aeroporto con la mia amica Ileana: dopo l’ennesima delusione amorosa abbiamo deciso di partire per il Costa Rica. “Ce lo meritiamo”, ci siamo dette. Grazie al fatto che lei lavora proprio qui, è riuscita a scovare due biglietti ad un prezzo stracciato. Questo benefit però ha una piccola condizione: in caso di overbooking, restiamo a terra.

“Tranquilla, non accade mai!”, mi ha garantito.

E invece è accaduto. Proprio a noi!

Ieri sera, in tenuta da giovani esploratrici, con il nostro bello zaino colmo, caricato sulle spalle, ci siamo presentate al check in e… sorpresa! “Siamo in overbooking, ci spiace!”, ha sentenziato l’assistente di volo.

Versando un sacco di lacrime, che andranno a bagnare i miei prossimi diari, ho pregato Ileana di trovare una soluzione.

“Tranquilla”, ha risposto, dimenticandosi che l’ultima volta che l’ha detto non ha sortito l’effetto desiderato. “Stanotte dormiremo qui in attesa che si liberino due posti per qualsiasi altra destinazione esotica”.

L’idea dell’ignoto, tutto sommato, mi ha sempre affascinato. Abbiamo passato la notte non a dormire bensì a fantasticare sulle possibili mete: il Myanmar e i suoi templi, il Kenya e la Savana, l’Australia con canguri e koala… Cuba!

Ci siamo guardate con gli occhi sgranati e la bocca spalancata dopo aver esclamato all’unisono quel luogo che, entrambe, abbiamo da sempre desiderato visitare, magari su una di quelle vecchie auto anni ’60, su strade malandate al ritmo di frenetiche salsa sparate a tutto volume dalle casse gracchianti, gomito fuori dal finestrino e nell’altra mano un dissetante mojito. Evviva i clichè.

“È libero questo posto?”, chiede un tizio dietro di me, indicando la poltroncina accanto alla mia.

Mi volto per rispondere e vedo due iridi nerissime incastonate in una sclera d’avorio e valorizzate da delle sopracciglia folte e curate. Una barba a sfinare un bel viso, reso ancor più interessante da un apparentemente casuale chignon, completa l’opera, togliendomi qualsiasi facoltà di proferire parola.

Il ragazzo alza un sopracciglio e tanto basta a ridestarmi. Gli faccio cenno di accomodarsi ed i suoi denti bianchissimi mi abbagliano come un coniglio sorpreso da un’auto in una strada di campagna. Non mi stacca gli occhi di dosso e non smette di sorridermi. Oh. Mio. Dio.

Gli sorrido a mia volta, ma senza mostrare i denti. Totalmente inebetita. 

In sottofondo parte la sigla di Narcos

“Francy, il telefono, rispondi!”, mi fa Ileana.

Vero, non ci avevo badato. È la mia suoneria, ma in questo momento catartico, l’avevo scambiata per la mia colonna sonora dell’attimo perfetto.

Rispondo sbrigativamente ai miei, ansiosi di sapere se sono arrivata sana e salva a San Josè. Li informo di essere ancora in aeroporto in attesa di conoscere cos’ha in serbo il destino per me e la mia amica. Si preoccupano, ma non più di tanto: ormai sono abituati alle mie bizzarre avventure. Impiego più tempo per chiudere la telefonata, tra loro raccomandazioni e ti vogliamo bene, che in spiegazioni.

“Complimenti per la suoneria”, mi dice il tipo non appena spengo il cellulare.

“Gr-grazie”, rispondo imbarazzata e deglutendo. Ho il dubbio se spiegargli o meno la mia scelta (che strano!), ma prima di capire che fare, lui continua.

“Conosci la storia di questa canzone?”, mi chiede.

Ho una lontana reminiscenza riguardo ad un tale che prima si è studiato la storia di Pablo Escobar per poi creare qualcosa ad hoc per la serie tv.

Sorride (eccome se sorride) al mio sguardo che si sposta da sinistra a destra per recuperare tale ricordo. Prosegue.

“Quando chiesero a Rodrigo Amarante, l’autore di Tuyo, di scrivere la traccia per la sigla di apertura di Narcos, lui volle prenderla come occasione per dare un contributo alla storia, mostrando un lato umano di un personaggio che, alla fine, ha compiuto gesti tutt’altro che umani. Se l’è immaginato in tenera età, mentre voleva dare a sua madre un motivo per essere fiera di lui, per essere quell’uomo che suo padre non era riuscito ad essere. Ha ricostruito, quindi, quell’epoca musicale, con atmosfere latine anni ’50 e ’60.”

Sono totalmente rapita. Ricordo tutto, ora, ma lo lascio parlare, pendendo letteralmente dalle sue labbra. È ipnotico.

“Immagino tu sia una fan del telefilm”, continua.

“Sì, beh, no, cioè…anche. Nel senso che l’ho scelta come suoneria perché mi piace il ritmo. Lo trovo decisamente sensuale. È un bolero che avrei voluto danzare come una rumba, ai tempi in cui gareggiavo”, rispondo, improvvisamente loquace, sentendomi a mio agio in un argomento per me appassionante.

“Ma dai! Quindi sei una ballerina?”, chiede.

“Lo ero”, dico abbassando gli occhi e sorridendo con tenerezza alle memorie dei bei tempi andati. “È una lunga storia!”, mi affretto a spiegare, notando un guizzo d’interesse nei suoi begli occhi neri.

Ileana mi rifila una gomitata e sottovoce mi intima di tagliare corto. Le mie storie le ha sentite e risentite fino alla nausea e sa bene che, quando inizio a raccontarle, poi difficilmente smetto.

Mi mordo le labbra. Lui le guarda, dischiudendo le sue. Silenzio.

“Bene. Che ci fa un’artista come te qui? Voglio dire, stai partendo per un viaggio di lavoro o di piacere?”, s’informa con apparente nonchalance.

“È un’altra lunga storia!”, sospiro.

“Ho tempo, il mio volo è appena fra due ore”, si sistema comodo.

Ileana si volta coprendosi il viso con le mani. Pare rassegnata.

Cercando di essere breve, gli racconto per sommi capi la nostra avventura e le nostre speranze sulla meta, tuttora ignota. Al termine del discorso, un altro lungo silenzio accompagna le nostre sbirciate di sottecchi.

Ad un tratto, lui si avvicina e mi sussurra all’orecchio “Comunque, io lo conosco”.

Avverto una scossa percorrere il mio corpo dal cuoio capelluto alle dita dei piedi. Ah, che voce!

La mia bocca spalancata lo invoglia a spiegarsi meglio.

“Voglio dire: conosco Rodrigo, il compositore della tua suoneria”.

Mi ridesto.

“Davvero?”, lo guardo stupita.

“Sì, ho avuto la fortuna di suonare con lui in Brasile un anno fa. Sono un musicista.”

Mi scappa un “Wow!” da liceale (nonostante io provenga da quel famoso istituto tecnico).

Ride. Dio, che sorriso!

“Scusami”, mi ricompongo. “Che strumento suoni?”, chiedo.

“Il basso. Sto raggiungendo la mia band in Brasile, per una tournée che mi terrà fuori casa per circa otto mesi”.

“Oh!”, esclamo, senza celare una leggera vena di sconforto per il fatto che le nostre strade sono probabilmente destinate a separarsi ancor prima di incrociarsi.

Si avvicina nuovamente. Ancor più vicino questa volta, tanto che sento spostarsi i miei capelli come una tenda mossa pigramente da una leggera brezza.

“Chissà? Magari ora la hostess vi scova due biglietti per San Paolo…” e lascia le sue labbra accostate a quel punto sul collo appena dietro il lobo dell’orecchio. Sto prendendo fuoco. Totalmente. S’infiamma il mio corpo, s’infiammano i miei pensieri. Tutti i miei sensi avvampano, mentre mi accorgo di pregare, sperare, desiderare che la sua supposizione possa tramutarsi in concreta possibilità.

“Signorine! Venite… si sono liberati due posti”, la signorina al desk mi riporta bruscamente alla realtà.

La mia compagna di viaggio balza sull’attenti, corre alla volta del check in. La vedo confabulare con l’addetta e poi girarsi verso di me con un immenso sorriso:

“Si va a Cuba!”, grida euforica, improvvisando un passo di salsa.

Rimango a bocca aperta. Mi giro lentamente verso il bassista.

Maledetti bivi!

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Qualche nota sull’autrice

Francesca Tuzzi. Insegnante ed operatrice olistica, esperta di sciamanesimo hawaiano, reiki, shiatsu, kinesiologia ed altre discipline olistiche. Autrice di saggi e racconti, tiene conferenze ed organizza eventi sulla coscienza collettiva e sul benessere a 360°. Ballerina, sognatrice e visionaria. Adora parlare, viaggiare e mangiare e talvolta riesce a far collimare tutte e tre le cose.

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1 thought on “I bivi: un racconto di Francesca Tuzzi

  1. L’autrice ha saputo cogliere le sfumature di ogni emozione vissuta nel dettaglio, racconto estremamente entusiasmante, mi ha lasciato con il fiato sospeso fino la fine e il cuore in palpitazioni per i dettagli, mi sembrava di essere presente durante la storia, auspico nel proseguo e nel lieto fine di questa storia così tanto coinvolgente.

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