Se lo sentiva nelle ossa che qualcosa non andava.
L’antica frattura dell’omero pizzicava, il ginocchio lievemente artritico le mandava al cervello delle fitte ritmate, che ormai aveva imparato a riconoscere. Chiusa dentro la tuta, la donna avanzava cauta attraverso la distesa pianeggiante, gli occhi puntati allo schermo integrato nel polso per captare il minimo segnale sospetto.
Non ce n’erano.
Lo schermo le rimandava l’assoluta immobilità del deserto, puntellata qua e là dai segni familiari degli scavi. Oltre quelli, davanti a lei non c’era altro. Nessuna forma di vita, nessun pericolo. Alle sue spalle, la base riposava ancora. Se avesse diretto i sensori da quella parte, lo schermo avrebbe preso a lampeggiare compulsivamente, segnalando le migliaia di entità viventi che vi abitavano. Ma da questa parte, niente spezzava la placidità del paesaggio.
Eppure, il sogno era sembrato così reale.
Si era destata di nuovo a notte fonda, con il cuore in tumulto e immagini spaventose che ancora intrappolavano il suo sguardo. Era rimasta seduta a busto scoperto, ansimando finché il sudore non le si era congelato sul viso e il battito cardiaco era tornato a una frequenza regolare. Solo allora si era alzata, aveva indossato la tuta ed era uscita per l’ennesima E.V.A. non schedulata.
Nessuna delle sentinelle l’aveva fermata, non lo facevano mai. La sua reputazione le permetteva di scorrazzare liberamente sulla superficie del pianeta. Camminava quasi ogni notte con lo sguardo fisso sullo schermo, in cerca di una prova che non stava impazzendo, che c’era davvero qualcosa, là fuori, che minacciava la base, che i suoi sogni erano premonizioni e non i deliri di una donna ormai anziana e senza più uno scopo nella vita.
Fino ad allora, per fortuna, i suoi presagi non si erano mai realizzati. Ciò nonostante, Mared continuava in quella sua routine, in parte per testardaggine, in parte perché altrimenti non avrebbe saputo cosa fare della sua vita.
Anche quel giorno, esaminò con cura l’intero perimetro della base, analizzò il terreno e la scarsa atmosfera del pianeta, si spinse fino a scandagliare le cime dei monti che delimitavano la Conca, senza però trovare nulla di anomalo.
Di nuovo, fu costretta a considerare l’idea che stava invecchiando e che forse soffriva davvero di PTSD, come sosteneva lo psicologo della base. E, per l’ennesima volta, accantonò quel pensiero. I suoi sogni non erano il frutto dello stress e dell’età, cercavano di comunicarle qualcosa, solo che ancora non era stata in grado di capire cosa.
Terminò il giro di ispezione e rientrò alla base.
Superato il doppio portello, si tolse il casco e salutò la sentinella con un cenno del capo.
«’giorno, Lady Mared» rispose questi, un giovane di appena due decine d’anni, brillante di orgoglio nella sua divisa lustra e perfettamente stirata. «È andata bene la sua camminata?»
Non c’era sarcasmo in quelle parole, eppure Mared si risentì lo stesso. Le voci, d’altronde, giravano sempre, in una base così piccola. E perfino la giovane sentinella doveva aver sentito dire che Lady Mared, veterana della “Missione 0”, soffriva di allucinazioni da stress. Così, strinse le labbra e si limitò a un freddo: «Come sempre, soldato» che congelò l’entusiasmo della sentinella.
Se ne dispiacque un attimo dopo.
Superò la guardia e continuò per il corridoio illuminato a giorno, diretta alla sua cabina. Lungo il percorso incontrò diversi abitanti, ma evitò di incrociare i loro sguardi. C’era un limite allo scherno che Lady Mared si sentiva in grado di sopportare, quel mattino. Ancora provata dal sogno, una volta in cabina si spogliò con fatica dalla tuta e scivolò nella doccia, lasciando che il calore del getto lenisse il dolore che ancora intrappolava le sue ossa.
“Sono vecchia” si disse per l’ennesima volta, un pensiero che la sorprendeva sempre nei momenti più inaspettati. Uscita dalla doccia, evitò di accendere le luci e di guardarsi allo specchio e si rivestì nella penombra, indossando una divisa consumata ma pulita. Si legò i sottili capelli grigi e ancora umidi in una coda mal fatta, e uscì.
La voglia di tornare in mezzo alla gente era poca, ma Mared sapeva di aver bisogno di parlare con qualcuno, se non voleva ridursi a una vecchia delirante chiusa nei suoi sogni oltre che nella sua stanza. Si diresse al refettorio comune, ma all’ultimo deviò verso la cabina dello psicologo. Trovò la porta socchiusa. Bussò piano e dall’interno giunse una voce arrochita e familiare: «Avanti.»
Mared entrò, sentendosi immediatamente accolta in quello spazio minuscolo. La cabina era stata arredata con cura, pochi oggetti ben selezionati per dare l’impressione di trovarsi in un salotto terrestre: un tavolino, due poltrone, una libreria con pochi libri che facevano più scena che altro. D’altronde, chiunque sulla base aveva accesso a tutto il sapere umano, digitalizzato e comodamente consultabile dai visori e dagli schermi che riempivano le pareti.
L’uomo sedeva su una delle due poltrone, e al suo ingresso le riservò un sorriso caloroso. «Lady Mared, che piacere.»
«Arnold» disse lei, a mo’ di saluto. «Hai un attimo per me?»
«Sempre, mia cara.» Lo psicologo le indicò la poltrona libera, senza perdere un centimetro del suo ampio sorriso. «Chiudi pure la porta, non ho appuntamenti.»
Mared fece come richiesto, entrò e prese posto accanto a lui, sul bordo della poltrona libera. Lo osservò qualche istante cercando, sotto le rughe e i segni dell’età avanzata, le tracce del giovane che era arrivato con lei su B-543, pianeta noto da quasi un decennio semplicemente come Casa. Lui si lasciò osservare, ricambiando il suo sguardo con affetto.
«Sei cambiato parecchio in questi decenni» disse infine Mared, con voce malinconica.
Lui rise appena. «Anche tu, mia cara. Ma solo sulla superficie, dentro sei sempre la solita testarda.»
Anche lei rise, e quella risata le permise di lasciar andare la tensione e di sedersi più comoda sulla poltrona.
Arnold attese qualche secondo, prima di riprendere. «Sei venuta qui solo per una chiacchiera tra vecchi commilitoni? O hai bisogno dei miei servigi?»
«Un po’ entrambe le cose» ammise lei, con una smorfia.
L’uomo annuì, comprensivo. «Allora, ci vuole qualcosa di caldo.» Si alzò e si diresse verso lo scaffale, dove in mezzo ai libri riposava anche un vecchio bollitore, di quelli che ormai si vedevano di rado alla base. Reliquia di un altro tempo e di un’altra vita, lui la riparava con la stessa metodica cura che dedicava ai suoi pazienti. Mise su l’acqua e attesero in silenzio che arrivasse a temperatura. Poi, Arnold pescò due tazze e due bustine da uno dei cassetti e versò l’acqua per gli infusi. Un lieve sentore di erbe si impossessò dello studio e Mared sentì una fitta di nostalgia.
«Ecco qui» disse Arnold, tornando alla poltrona e posando le due tazze sul basso tavolino. «Ora siamo pronti.»
Mared prese qualche sorso e il sapore speziato dell’infuso sintetico la riportò indietro, a un’epoca in cui B-543 non era che un pallino su uno schermo, e lei sapeva ancora cosa si provasse a camminare scalzi sull’erba, a raccogliere fiori e foglie per essiccarli e farci delle tisane. Un sospiro malinconico le sfuggì dalle labbra, ma fu lesta a catturarlo nell’acqua e ad evitare che si disperdesse nello studio.
Quando si sentì pronta, abbassò la tazza e guardò Arnold negli occhi, resi lievemente opachi dall’età. «L’ho sognato di nuovo» disse soltanto.
Lui annuì. «Sempre uguale?»
«In parte.» Mared prese un altro sorso, posò la tazza sul tavolo e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, sentendosi di nuovo vecchia, e stanca. «Questa volta era una tempesta. Violenta e implacabile, veniva da est e spazzava via tutto. Non rimaneva niente, neanche lo scheletro.»
«E tu eri sempre fuori, a guardare la scena da lontano?»
«Sì. Vi osservavo morire, senza poter fare nulla. Troppo lontana, e terrorizzata, per raggiungervi e condividere la vostra sorte.» Mared fece una pausa, sospirò scuotendo la testa e alcuni ciuffi sfuggirono all’elastico, accarezzandole le guance solcate e indurite dal tempo. «Stanotte sono uscita per cercare i segni di una tempesta in arrivo. Non ne ho trovato. Come sempre.»
Sullo studio cadde il silenzio, che durò per diversi secondi. Arnold non bevve, ignorò la tazza e continuò a guardare lei, come se studiasse un qualche fenomeno misterioso e inspiegabile. «Mared…» disse infine, con voce fattasi ancora più dolce.
In quelle note, lei riconobbe la melodia della pietà, e suo malgrado si ritrasse. «Non ho bisogno del tuo dispiacere, Arnold» disse, brusca,
L’uomo si limitò a scuotere il capo. «Non te lo sto offrendo. Ma forse…»
«Forse cosa? Dovrei arrendermi? Accettare che sono pazza?» Aveva alzato il tono, ma Arnold non si scompose. Fuori di lì, d’altronde, nessuno avrebbe sentito. E dentro lo studio, Mared si sentiva al sicuro da qualunque giudizio.
Arnold si sporse dalla poltrona e le prese una mano nella sua. «Non sei pazza. Hai visto… cose. Cose che molti, qui dentro, sono troppo giovani anche solo per immaginare.» Strinse con dolcezza le sue dita, le accarezzò la pelle illividita, prima di continuare. «Temi perché sai. Sai che nulla dura in eterno. E che anche la Conca, prima o poi, è destinata a scomparire. Tutti noi siamo destinati ad essere spazzati via.»
«E tu? Come riesci a vivere con una simile consapevolezza?» mormorò Mared.
«Non ci riesco» disse semplicemente lui. «Ma vado avanti comunque. Perché è l’unica cosa che posso fare.» Si guardò intorno, abbracciò con lo sguardo lo studio e tutto ciò che cresceva oltre i pannelli d’acciaio. Poi tornò a osservare lei. «Non posso controllare il futuro. Né posso proteggerci da ciò che, prima o poi, arriverà a strapparci di mano tutto. Posso solo far finta che il qui, e l’ora, siano l’unica cosa che conta. È l’unico modo per non impazzire.»
«Allora, io sono già andata» soffiò lei, con tristezza.
Arnold le accarezzò una spalla. «No, Mared. Tu sei sempre stata la più tenace di noi, e la più resistente. Sei solo quella che si porta dentro più sensi di colpa.»
Mared sentì una piccola fitta familiare strozzarle il respiro. «Sappiamo entrambi che è stata colpa mia.»
«No, non lo è stata» disse subito lui. Si alzò, per prendere posto sul bracciolo accanto a lei. «Hai fatto il possibile. Non c’era modo di evitare quello che è stato. Nessuno avrebbe potuto prevedere nulla del genere.»
«Ma se ora io potessi?» disse lei. Alzò gli occhi su di lui, erano lucidi e carichi di sofferenza. «Se i miei sogni fossero questo, un presagio, un avviso? Se l’universo questa volta mi stesse allertando? Come forma di riscatto, come…» Si interruppe, sentendo il peso degli anni e degli accadimenti diventare insostenibile, schiacciarla come l’insignificante umana che era sempre stata. Una lacrima corse sulla sua guancia divorata dal tempo, un’altra la seguì subito dopo. «Loro…» singhiozzò, sentendosi improvvisamente fragile. «Loro sono morti per colpa mia…»
Le braccia di Arnold la circondarono, lei vi si tuffò all’interno come un porto sicuro nella tempesta che montava. Non era sempre stato così, tra loro. Un tempo, era stata lei quella forte, quella che guidava e sosteneva, quella che non si faceva spezzare da nulla. Un tempo, aveva avuto le forze per raccogliere i sopravvissuti, caricarli sulle navi e condurli al sicuro.
Un tempo… quel tempo era così lontano che Mared faticava a ricordarlo.
«Non sono morti per colpa tua…» le sussurrò Arnold, cullandola. «Loro sono vivi, per merito tuo. Hai salvato quelli che potevano essere salvati. Hai fatto il massimo.»
«Non è stato abbastanza…» Mared lasciò che le lacrime saturassero i pensieri, che cancellassero anche il ricordo dell’ultimo sogno, e di quello precedente. Erano sempre uguali, eppure sempre diversi. A volte era una tempesta, altre un’alluvione. A volte crollavano le vette che fino a quel momento li avevano protetti dai venti di un pianeta poco ospitale. Altre, le più dolorose, era il cielo stesso che si apriva e crollava loro addosso. Com’era stato, e come non era riuscita a evitare che fosse.
«Io… anche allora me lo sentivo, che sarebbe successo» mormorò. «Eppure, non ho fatto abbastanza per impedirlo.»
Non disse più nulla, continuò solo a piangere. E Arnold rispettò quel silenzio, continuò a stringerla senza aggiungere nulla. Rimasero così un tempo talmente lungo che Mared non fu in grado di quantificarlo. Gli infusi si freddarono, la luce nella sala cambiò seguendo il ritmo circadiano artificiale.
Infine, Mared terminò le lacrime e rialzò la testa, trovando quella di Arnold a poca distanza dalla sua. «Sarà sempre così, d’ora in poi?» disse, con voce ancora greve di pianto. «Quanto ancora dovrai sopportare le mie lacrime?»
«Quanto serve» le disse lui, senza smettere di abbracciarla. «Ti devo la vita. Tutti, qui dentro, la dobbiamo a te.»
Mared scivolò fuori dall’abbraccio, si raddrizzò. Asciugò le lacrime che ancora le bagnavano il viso. «Sai che non posso smettere?» disse.
«Smettere cosa?»
«Le escursioni, la ricerca.» Scosse di nuovo il capo, le ultime ciocche rimaste nell’elastico scivolarono fuori, i capelli ormai asciutti le contornarono il viso. Portavano anche loro i segni dell’età, eppure lei continuava ad avere lineamenti di bambina. Li aveva sempre avuti, forse era per quello che dopo la tragedia la gente sopravvissuta si era fidata e l’aveva seguita in un viaggio impossibile attraverso le stelle. Non potevi dubitare di un volto così, né temere che ti avrebbe fatto del male. E infatti, almeno quel manipolo di folli Mared l’aveva salvato. «Non posso smettere. Se lo faccio…»
“Se lo faccio, mi spegnerò del tutto”. Non era necessario che lo dicesse, Arnold ne era consapevole. Si limitò ad annuire, con tristezza. «Lo so» disse.
Non aggiunse altro, anche se Mared sapeva quanto l’uomo temesse che quella sua ossessione l’avrebbe divorata, e che in quella sua continua ricerca di un riscatto avrebbe finito per consumarsi. Non aggiunse altro, perché non c’era nient’altro che potesse dire.
E nemmeno lei sentì il bisogno di farlo. Mared si alzò, poggiò con delicatezza le labbra sulla guancia di lui e uscì, mormorando solo un ultimo: «Grazie» che, sapeva, non sarebbe stato davvero l’ultimo.