Narrativa Contemporanea, Recensioni

Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile, di Laudomia Bonanni

E va bene, provo a scriverlo.

Comincia così Il bambino di pietra, terzultimo romanzo di Laudomia Bonanni. Un inizio netto, definito nella sua incertezza: la risoluzione del fare un tentativo, del darsi una possibilità, anche se scettica, per stare meglio quando il resto non sembra funzionare: scrivere, scavare, cercarsi.

Cassandra, la protagonista che emerge, vivida e sfocata, da queste pagine è una donna arrivata sulla soglia della maturità con addosso un grumo di ansie, paure e terrori che fatica ad afferrare e comprendere. Nevrosi femminile, questi i contorni che Cassandra dà alla sua condizione. Scrivere è la terapia che il suo psicologo, vecchio amico di famiglia dei tempi del casino, le prescrive per provare a uscire dal gorgo della nevrosi nella quale è immersa. Insieme agli psicofarmaci, ovviamente, che allentano le paure, diluiscono le giornate, sbloccano i ricordi.

Proprio i ricordi sono al centro delle pagine che Cassandra scrive in cerca di sé stessa. Ricordi di un’infanzia da figlia non voluta e poco amata, in una famiglia troppo numerosa che abita un casino sempre affollato, tra fratelli e sorelle, zie nubili e zii esiliati, nonne e serve, padre e amici, e una madre che è perno e forza, cura e ruvidezza distribuite in parti disuguali tra figli maschi e figlie femmine, soprattutto l’ultima, quella di cui si poteva anche fare a meno, quella che ha imparato a leggere da sola e preferisce i libri alle persone che la circondano. Il rapporto con la madre, con le sorelle e i fratelli, con il marito sposato a trent’anni e molto più grande, sono frammenti di memoria che si intrecciano, in un flusso ingarbugliato dal quale estraiamo, una pagina alla volta, il ritratto di una donna come tante, di una come noi.

Una nevrosi femminile

L’infanzia è un territorio sconosciuto. Anni della vita scomparsi, come se non li avessimo vissuti. A sprazzi la memoria ci ripresenta momenti isolati, luoghi persone impressioni, emersi dall’amnesia. E come possiamo sapere cosa abbiamo rimosso. Cerco di recuperare qualche filo.

Il sottotitolo del romanzo ci anticipa che quella che Cassandra sta vivendo è una condizione comune a tutte le donne. Una nevrosi sociale, un destino che ci accomuna tutte, dal quale forse non possiamo sottrarci: il destino di essere prima figlie e poi madri, condannate ad annularci in un ruolo che ci colma tanto quanto ci svuota, o di non vestirlo mai e convivere con il vuoto, con quel bambino di pietra che sentiamo pesare al centro del ventre, segno della nostra incompletezza, del nostro fallimento. Un ruolo imposto, un ruolo bramato, un ruolo rifiutato: poco importa la nostra scelta, resta il peso del destino segnato, nelle parole delle madri e delle sorelle che il loro dovere lo hanno fatto, che hanno trovato un posto – ma lo hanno trovato davvero? – nel mondo che a noi continua a rifiutarci.

Tra le pagine di questo memoir finzionale, la maternità e la “figlitudine” sono scomposte, analizzate nel tentativo di dar loro un senso, di darsi un senso. I fili che legano Cassandra al suo essere stata figlia, e non essere stata madre, sono gli stessi che l’hanno resa una “moglie impotente”, una donna incapace di trovarsi nell’amore, spaventata dall’annullarsi e trovarsi tipico della relazione a due. Il suo bambino di pietra è il peso che la blocca a letto, dentro casa, lontana da una società che prepotentemente le ricorda il suo duplice fallimento: non essere madre e non essere stata una buona figlia. Non esserci stata abbastanza, non aver fatto abbastanza: questo Cassandra sembra rimproverarsi per bocca d’altre, e dunque non resta che tornare a casa, lì da dove si era fuggite, per provare a ricucire almeno qualcuno di quei fili rimasti sospesi.

Essere figlia, sorella, madre

Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespressso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra?

Di nuovo a casa, davanti alle fiamme della stufa che la riaccolgono dopo anni d’assenza, Cassandra legge e scrive, riceve visite dalla famiglia, assolve al suo ruolo di figlia non madre, l’unica a cui spetta, per giustizia, di prendersi cura dei genitori in decadimento. Anche se, come si conviene per buona famiglia borghese, madre e padre sono già curati da due donne popolane, una serva e un’infermiera, che assolvono a tutte le loro necessità di base e finiscono per prendersi cura anche della figlia ritornata. A Cassandra non resta che esserci, assistere alla fine dei suoi genitori, esserne testimone per chiudere il cerchio nel modo giusto, nel modo prescritto.

Davanti alla madre, un tempo donna energica, brusca e capace di dolcezze solo verso i figli maschi, il primogenito in testa, e oggi vecchia e consunta, ossa e pelle, ricordi sbiaditi e spezzati, Cassandra si interroga su sé stessa, cerca di ricostruire i suoi fili. Ma, distante dalla donna che la madre è stata, trova ragione piuttosto in Amina, la nipote sedicenne, fuoco e intraprendenza, nuova generazione di donne che sanno quello che vogliono e non si vergognano di pretenderlo. Amina vede in Cassandra una madre, perché nella sua non si riconosce, non la apprezza e da lei non si sente apprezzata; vede una guida, la libertà tanto bramata; e per lei, Cassandra prova qualcosa che potrebbe sembrare la maternità tanto cercata e allontanata, e che pare concretizzarsi al contempo in sorellanza: Quello che provo è solidarietà femminile e una sorta di ammirazione intimidita dice, verso la fine, quando i fili della sua esistenza si stanno risaldano e convergono con quelli di Amina.

Quando infine Cassandra lascia la casa di famiglia, ormai orfana e adulta, avendo fatto i conti con i traumi dell’infanzia, con quello della perdita del fratello, con quello di non essere stata madre, e con una figlia inaspettata al seguito, il cerchio sembra finalmente chiudersi: da figlia e sorella a madre, seguendo un percorso diverso da quello atteso, aprendo nuove strade, nuove possibilità insperate per essere sé stessa fuori dal giogo familiare:

Parto, vado via dopo due mesi imprevedibili. Mi domando perché sono rimasta. Forse non ero mai partita veramente. Il cordone ombelicale non era stato tagliato. Sortilegio del cerchio. La sottile insidia della chiusura familiare. Me ne vado davvero solo adesso. E lo desidero.

Essere moglie, donna duplice, finalmente libera

Anche il rapporto con il marito, sposato per fare la cosa giusta agli occhi della famiglia, vissuto come una presenza scomoda e difficile da comprendere ma anche fonte di sollievo, allontanato dal letto e cercato al telefono, sempre pronto con una tazza di caffè al mattino, anche questo rapporto si apre all’improvviso a nuova possibilità ora che Cassandra si è ritrovata; possibilità da esplorare finalmente libera ora che il bambino di pietra sembra essersi finalmente dissolto:

Ho addosso una confusa esaltazione. Santo cielo, che forse mi andrebbe perfino di fare l’amore?
Incontrarsi, unirsi, scegliersi non per affinità, sono anzi le differenze a compenetrarsi, come in un letto singolo che per starci in due bisogna piegare le proprie membra adattandole alle opposte curve dell’altra persona. Si è sempre piegato lui verso la mia rigidità. Ora mi sento più flessibile. Sarà vero che sono gli estranei di sangue, i compagni di strada, i due della coppia, ad appartenersi. Alla fine è in due che si rimane.

In chiusura resta un indugio, l’incertezza che la nevrosi possa tornare, che non se ne sia mai davvero andata. Ma anche questo è parte del cerchio che si chiude, accettare che ciò che è rotto possa non aggiustarmi mai, convivere con i frammenti, farne ricchezza, essere doppia per tutto il resto dell’esistenza:

Dentro, in fondo, è rimasta inseparabile e ha sempre un po’ di paura [ndr: la ragazza del casino]. Mi sono sdoppiata, dobbiamo convivere. Posso rassicurarla. Blandirla. Una sola compressa, ogni tanto, di nascosto, fra noi due.

E va bene così, anche se ogni tanto quella compressa la si deve prendere davvero. Provare ad andare avanti, convivere, esserci. Ed è solo questo che conta.

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Un grande ringraziamento a Rebecca, che apre percorsi, suggerisce sentieri letterari inesplorati. Qualunque cosa dicano gli altri, per me stai facendo cose grandiose.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.

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