Mi è stata rivolta tante volte, questa domanda, declinata in modo diverso a seconda della persona che la poneva: ma tu cosa studi, esattamente? mi ha chiesto mia nonna qualche tempo fa con sguardo confuso; ma che lavoro potrai fare dopo? chiede ogni tanto qualche parente più preoccupato dal lato pratico; ma sei un’informatica o una letterata? chiedono esponenti delle rispettive categorie, per poi storcere il naso quando dico che sono entrambe le cose e nessuna delle due.
Quest’ultima domanda, tra l’altro, è la mia preferita, forse perché non è così distante da quello che io stessa mi chiedo, di tanto in tanto: chi sono, esattamente? Sono un’informatica poco esperta? una linguista iper specializzata ma con scarse basi teoriche? una letterata senza il tesserino di appartenenza all’illustre comunità?
La risposta che mi do solitamente, con sfumature più o meno positive a seconda dell’oscillamento ormonale e accademico è: sono un balto. O meglio, una balta: non sono un cana, non sono una lupa; so solo quello che non sono.

Vivere sul confine: è davvero tanto male?
Siamo abituati a pensare che sia necessario definirsi, mettersi delle etichette, essere qualcosa di preciso, avere contorni perfettamente riconoscibili. È un’esigenza generata dalla società della performance, una società che premia i geni, le eccellenze, i migliori: il miglior scrittore, il miglior matematico, il miglior fisico (declinati al maschile volontariamente). Delle altre persone, quelle poco definibili eppure essenziali perché spesso aiutano il Premio Nobel ad arrivare dove è arrivato, ripetono mille volte quell’esperimento fatidico insieme a lui, nutrono le sue ispirazioni di nuove ispirazioni, di nuovi pensieri… di loro non parliamo mai.
L’immagine dello scienzato modello è un’immagine di perfetta e brillante solitudine. Così come quella dello scrittore o dell’artista contemporaneo.
Eppure, se ci pensiamo a fondo, nessuno ai giorni nostri fa davvero scienza da solo. O scrive, da solo. Ogni ricercatore ha al suo fianco un gruppo di ricerca, ogni scrittore un team di editor, correttori, esperti di diversi settori, persone che investono il loro tempo e la loro esperienza per rendere il suo libro migliore.
Perché non parliamo mai di tutto questo?
Perché non è funzionale alla nostra storia di meritocrazia e genialità. Perché ci piacciono gli eroi semplici da definire, quelli che rientrano nelle caselle e le spuntano alla perfezione: matematico, fisico, chimico, ingegnere, architetto, scrittore, critico letterario e così via.
Però, anche se fingiamo che la realtà funzioni davvero così perché la storiella ci piace, tutto quel substrato di collaborazione e conoscenze mescolate esiste ed è ciò che tiene in piedi l’intero sistema.

La scienza, le arti, il pensiero sono sempre frutto di mescolamenti imprevedibili
È qui che entriamo in scena noi, studiose e studiosi che si muovono perennemente sul margine: chi studia Informatica Umanistica sa, fin dal principio, che il suo ruolo sarà quello di ponte, di collegamento tra mondi in eterna contrapposizione (o almeno, così siamo abituati a pensarli): quello umanistico e quello scientifico, arti e pensiero logico, mondo umano e mondo puramente numerico.
Il nostro percorso accademico si muove sul confine: studiamo i fondamenti della programmazione, l’algoritmica e la logica, basi teoriche e linguaggi di programmazione; e al tempo stesso studiamo letteratura, linguistica, geografia, storia e storia dell’arte. È evidente che, in solo tre o cinque anni di percorso ibrido, non possiamo arrivare ad avere le stesse conoscenze teoriche e pratiche di chi fa informatica pura, o di chi studia lettere, storia o belle arti. Il tempo è limitato, i crediti anche, e la possibilità di specializzarci in uno di questi percorsi è ridotta alle scelte degli esami liberi, quando presenti.
Eppure… eppure alla fine di quel percorso arriviamo con una visione del mondo che forse poche altre figure hanno: la nostra oscillazione continua tra tecnologia e arte ci porta a vedere i fili o, quando le cose vanno davvero molto molto bene, a crearli dove prima non c’erano: nuovi modi per raccontare la letteratura nell’era digitale, nuovi modi di valorizzare le arti, di raccontarle, di farle arrivare alle persone. Questo ci si aspetta da noi alla fine del nostro percorso e spesso da questi cinque anni sbocciano pensieri e proposte impreviste, che cambiano davvero il modo in cui guardiamo alla produzione umana.

Cosa fa quindi, nella pratica, un’informatica umanistica?
Un esempio semplice? Quello che faccio qui, su questo blog. Osservo il mondo letterario e provo a capire come cambia e si evolve grazie al mondo digitale: l’articolo basato sulla mia ricerca triennale racconta molto bene cosa siamo in grado di notare quando non ci limitiamo a considerare “libro” l’oggetto di carta e inchiostro al quale abbiamo ormai fatto l’abitudine. E ancora, la nascita della rivista digitale “Chiacchiere d’Inchiostro” e la sua evoluzione nel nuovo numero in uscita è un altro esempio di come ci si può muovere sul confine tra tradizione e innovazione per creare cose nuove, cose impreviste e spesso bellissime.
Uscendo da Chiacchiere Letterarie, poi, gli esempi diventano innumerevoli e spesso sorprendenti e riguardano progetti capaci di rafforzare le connessioni tra saperi classici e strumenti digitali: nuovi cataloghi online per biblioteche, archivi e musei, consultabili da tutti i dispostivi, soprattutto dagli smartphone che sono diventati parte integrante delle nostre esistenze; software che permettono il riconoscimento del testo manoscritto dei preziosi libri antichi miniati, e che permettono di ricavarvi informazioni che prima erano inaccessibili; piattaforme per l’apprendimento e il supporto agli studenti e ai docenti o ancora risorse digitali per studiare e conoscere nel profondo la produzione culturale e storica della nostra società.
Essere informatici umanisti – o umanisti digitali – è fare del margine, del confine tra arti e saperi, un luogo di possibilità e ricchezza. È camminare in perenne disequilibrio, accettare di non specializzarsi mai davvero e fare di questo stato ibrido e marginale la proprio forza e il proprio percorso di vita.
Non posso non citare bell hooks in questo contesto, la prima teorica femminista ad avermi mostrato quanto il margine, il confine, siano il luogo di partenza ideale per cambiare il mondo:
“La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza. […] Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi.”
E così, da brava informatica umanistica provo a immaginare alternative e nuovi mondi, mondi che hanno al centro le persone e il loro sapere, la loro capacità di creare e migliorare, la loro voglia di comunicare. Il mio e nostro obiettivo è rendere tutto questo più semplice, tessendo quei fili spesso invisibili che oggi, nel mondo delle intelligenze artificiali e dei robot, diventano sempre più delicati ed essenziali.