Fuori, la Terra rotola via in una massa di luce lunare, si allontana mentre loro avanzano verso il suo sconfinato confine […].*
La Terra, vista dallo spazio, sembra perfetta: distesa ininterrotta di mari e terre, priva di distanze, di confini. È solo di notte, quando le luci si accendono, che si riescono a intravedere i dettagli: alcune terre sono più popolate, più densamente illuminate, sembrano più vive; altre, sono macchie nell’oscurità che colpiscono proprio per la loro solitaria bellezza.
Con il suo Orbital, libro vincitore del Booker Prize 2024, Samantha Harvey ci racconta sedici orbite intorno alla Terra vissute dalla stazione spaziale internazionale. Per farlo, prende in prestito i pensieri e le sensazioni dei sei cosmonauti che abitano la stazione: Pietro, italiano, Chie, giapponese, Nell, inglese, Shaun americano e Roman e Anton, russi. Ognuno di loro è un pensiero a sé, una vita a sé, ma è anche parte di un tutto che funziona proprio in ragione della perfetta simbiosi tra loro.
Mentre la Terra scorre, di continuo, fuori dagli schermi della nave spaziale, i cosmonauti la osservano dall’alto e ne evocano la devastante magnificenza: che sia giorno oppure notte, alba di lancinante bellezza o malinconico tramonto; che a colpirli siano le luci delle città o i profili dei monti e il movimento sinuoso dei fiumi, i sei scandiscono la loro routine scientifica – efficiente, misurata minuto per minuto, quasi asettica nella sua necessaria perfezione – con ricordi e pensieri disordinati dedicati al pianeta Madre che li osserva dal basso.
Tutto il senso del loro galleggiare nello spazio, del loro danzare in perenne assenza di gravità – o meglio, in perenne caduta libera – risiede proprio in quella sfera imperfetta e colma di meraviglia che scorre sotto di loro. Il loro stesso essere così diversi eppure così in simbiosi, sembra dirci Harvey, è perfetta metafora di quello che noi umani, da qui in basso, ci scordiamo di vedere: che al di là delle guerre, della lotta alle risorse, delle incomprensioni, siamo tutti parte di una vita più grande, di un tutto più grande. Qualcosa di difficilmente comprensibile a meno di sollevarsi molto in alto, tanto da intravedere l’immensità oltre il nostro sguardo, per poi voltarsi indietro e rimanere folgorati.

La Terra vista dall’alto
Ruotano intorno alla Terra nella stazione spaziale, così uniti e così soli che ogni tanto persino pensieri e mitologie si fondono. A volte sognano gli stessi sogni – frattali e sfere azzurre e volti familiari inghiottiti dall’oscurità, e il nero vivave dello spazio che è una frustata a tutti i sensi. Lo spazio puro è una pantera, selvatica e primordiale; la sognano aggirarsi ferale tra loro.
Pietro, Chie, Nell, Shaun, Anton e Roman sono sulla stazione spaziale mentre un altro gruppo di cosmonauti si stacca dalla superficie terrestre per volare verso la Luna. Dalla loro posizione privilegiata, distante eppure ancorata al pianeta madre, osservano lo spazio tra Terra e Luna venire annullato, ancora una volta, da quegli uomini e quelle donne che stanno scrivendo un altro capitolo della Storia. Sanno già di essere obsoleti, il loro galleggiare intorno alla Terra sarà presto obsoleto, lo prennuncia la crepa che si sta formando nella parte più antica della Stazione, lo preannuncia quella nuova missione di allunaggio.
Ora è Luna, domani sarà Marte, e poi? L’universo sconfinato si fa sempre più raggiungibile, e questo momento di trionfo tecnico-scientifico è l’occasione giusta per voltarsi ancora una volta verso la Terra e osservarla, in tutta la sua fragile imperfezione: un tifone si muove sulla sua superficie, spazza via casa e vite; i cosmonauti, dall’alto, possono solo documentarne il cammino, ma i loro pensieri vanno alle persone rimaste giù, a quelle che si rannicchiano dietro gli altari, quelle conosciute in tempi lontani, quelle che scamperanno il pericolo e quelle che invece non ce la faranno.
Qual è stato il costo del nostro progresso? È stata una cosa positiva o negativa voler dominare lo spazio? siamo spinti a chiederci insieme ai cosmonauti, e poi Pietro ci dà la risposta: il progresso, come l’esistenza stessa, non è né buono né cattivo: è bello, perché è vivo e vitale come gli esseri umani che l’hanno creato. E, come loro, è imperfetto e costellato di errori.

Andare nello spazio, ricordandosi di essere umani
Non c’è nient’altro e non c’è mai stato. E quando la terra arriva di nuovo pensi, ah già, come se ti fossi appena svegliato da un sogno meraviglioso. E quando arriva di nuovo l’oceano pensi, ah, già, come se ti fossi svegliato da un sogno nel sogno, fino a quando sei così avvolto nei sogni che non riesci a trovare una via d’uscita e non pensi nemmeno di provarci. Stai semplicemente fluttuando e girando e volteggiando a cento chilometri di profondità all’interno di un sogno.
È dallo Spazio, dall’alto di quell’immensità oscura e puntellata di stelle, che possiamo finalmente comprendere la nostra umanità: che sia a causa della morte di una madre, delle insanabili differenze con un marito, che sia un tifone o un’alba struggente, poco importa: ogni cosa, vista dall’alto, acquista un nuovo significato.
E così, Samantha Harvey ci porta in alto, nel punto più in alto nel quale, per ora, gli esseri umani hanno la possibilità di danzare e riflettere. E con un romanzo lirico, fuori da ogni canone, sregolato e letterario come questa recensione prova ad essere, ci ricorda quanta bellezza risiede nella semplicità del nostro essere umani, del nostro saper sognare e sperare, e danzare e amare la vita.
In poco meno di duecento pagine, sedici orbite terrestri, sedici albe e tramonti, vediamo scorrere i pensieri e i sogni di sei umani che sono e non sono noi allo stesso tempo. Sei umani che sono stati capaci di fare qualcosa che pochissimi di noi, quasi nessuno è in grado di fare – farsi sparare in aria su una bomba di cherosene per poi attravarsare l’atmosfera in una capsula in fiamme con l’equivalente del peso di due orsi neri – solo per trovarsi a danzare in mezzo a nulla per percepire la devastante bellezza dell’essere in vita.
Non c’è quasi nulla di comune in questo romanzo – non c’è trama, non ci sono dialoghi, non c’è conflitto – eppure c’è tanto di umano e di potente: c’è la potenza del pensiero e del desiderio, l’incanto del sentirsi parte di qualcosa, parte di un equipaggio, di una missione, di uno scopo, di un’esistenza. Parte di un’umanità, che anche se non ha ancora capito come proteggere e curare sé stessa e ciò che la circonda, anche se si ostina a puntare in alto, sempre più in alto, dimenticandosi quello che si lascia alle spalle, a volte è anche in grado di voltarsi, mentre volteggia tra le stelle, e venire folgorata dal pensiero che è solo un piccolo granello dentro di qualcosa di semplicemente vivo – imperfetto, a volte sbadato, spesso cattivo – e proprio per questo di semplicemente e assolutamente bellissimo.
* tutte le citazioni in questa recensione sono estratte dall’edizione italiana del romanzo pubblicata da NN Editore, traduzione a cura di Gioia Guerzoni.