Racconti, Scrittura

Background Sonea Aria

Oscurità… Un’oscurità che pervade ogni dove. I miei occhi non riescono a distinguere nessuna forma, nessun colore. Vedo solo buio, un buio profondo e agghiacciante. E sento freddo, come se camminassi in vestaglia su una distesa ghiacciata. Muovo qualche passo e mi sembra di camminare su di un tappeto infinito di velluto nero. Ogni passo avanti (sto davvero andando avanti?) rivela nuova, inquietante oscurità. La mia mente è vuota, ogni singolo frammento della mia profonda e faticosa conoscenza sembra essersi volatilizzato. Sono consapevole di essere in grado di illuminare questo posto con una sola parola ma essa mi sfugge, come un filo inafferrabile nella mia mente. Posso solo camminare finche le mie forze me lo consentono, ma ogni passo si fa più difficile, più pesante.
Il freddo inizia ad entrarmi dentro, non è più una distesa gelata su cui cammino, sono io quella distesa gelata ed improvvisamente mi rendo conto che è la paura che mi congela ogni frammento dell’anima. Mi rendo conto all’improvviso che questa oscurità è spaventosamente familiare e che per quanto terribile appaia provo un’irrefrenabile desiderio di smettere di camminare. Un’idea di cosa mi aspetti aldilà di questa oscurità balena davanti ai miei occhi ma a questo punto non ho più il controllo del mio corpo e continuo ad avanzare, passo dopo passo, finché non intravedo uno spiraglio, un piccolo punto di luce che diventa sempre più grande. Ma non è una luce calda e confortevole, non mi rassicura, anzi il mio stomaco inizia a contrarsi e il mio respiro si spezza. Perche non riesco a fermarmi?
Ora sono abbastanza vicina da distinguere due luci in quella fonte luminosa. Vorrei chiudere gli occhi ma non controllo più neanche quelli. Le due luci si fanno più vicine, e io vi riconosco due occhi spettrali che mi fissano. Non posso girarmi, non posso scappare, non posso difendermi. I passi si interrompono, le ginocchia vacillano e sono a terra, debole e indifesa davanti a quegli occhi che mi osservano con odio.
Una bocca si staglia sotto di essi, una sottile lama di luce che in un battito di ciglia si scaglia su di me. Un urlo acuto, agghiacciante e infinito esce dalle mie labbra prima che tutto, me compresa diventi oscurità.

Mi risveglio urlando, con la fronte fradicia di sudore. Sono nella mia camera, nella gilda, e il sole entra della finestra, un raggio benefico e vitale che mette in risalto i superbi colori della realtà. Il mio respiro affannoso lentamente si tranquillizza e il ricordo ancora vivido dell’incubo si attenua un poco. Muovo lentamente entrambe le mani all’altezza del mio viso e le esamino attentamente. La destra e intatta, nessun segno particolare su di essa. Trattengo un attimo il respiro prima di volgere lo sguardo sulla sinistra. L’orribile e familiare cicatrice si staglia sulla mano; invade pressoché tutto il palmo, arrivando a lambire parte delle quattro dita, nera e pulsante a causa dell’ultimo incubo. I ricordi irrompono violentemente nella mia testa, mischiandosi alle scene dell’incubo, tanto da non permettermi più di distinguerli. Non gli do la possibilità di sopraffarmi. Mi alzo di scatto e mi dirigo nell’angolo della stanza, verso la tinozza d’acqua che ho preparato ieri. La prendo a piene mani e mi lavo il viso, è ancora abbastanza fredda da placare il turbinio di pensieri funesti. Con la mente finalmente lucida mi sposto verso il piccolo scrittoio sotto la finestra dove un leggero tomo rilegato in pelle mi aspetta. Il custode della mia arte, della mia conoscenza. Tutto quello che sono, che sono diventata dopo anni di studi, fatica e ahimè dolore, riposa su quelle pagine. Mi siedo e alzo la sottile copertina. I caratteri lucidi e ordinati della mia calligrafia riempiono le prime pagine del tomo. Traggo un respiro profondo e con estremo piacere mi immergo nel mio studio, assaporando la delizia di quei caratteri così familiari.

Quando finalmente poso il libro il sole è già alto nel cielo e nella mia testa vorticano ordinatamente molti preziosi estratti di quelle pagine. Non sono vere e proprie frasi, ma più torrenti e ruscelli che armoniosi scorrono nella mia mente, in attesa che una sola mia parola gli permetta di sgorgare fuori. Mi sento esaltata ma al tempo stessa smaniosa di apprendere ancora, di conoscere di più, di padroneggiare quest’arte alla perfezione. Una sottile e subdolo pensiero si insinua nella mia mente: “non potrai mai raggiungere la perfezione, ricordi? Sei stata tu stessa a privartene”. È un attimo, ma quasi tutto il mio buon umore è svanito, lasciando il posto alla malinconia e, ancora una volta, ai brutti ricordi. Chiudo gli occhi e con la mente ritorno a dieci anni fa, un tempo che sembra lontanissimo ma improvvisamente sento così vicino e doloroso. Mi rivedo, piccola e vivace, che vengo ammessa alla gilda della mia città per apprendere le misteriose arti magiche grazie all’influenza di mia madre, incantatrice d’eccellenza della nostra piccola comunità. Come mi sembravano difficili e noiose allora tutte le lezioni! Quant’era fastidiosa quella severa disciplina che c’imponeva di leggere solo quello che ci veniva detto, di agire solo come da comandamento, di metter via l’allegria, la spontaneità e i giochi! Ero convinta di essere finita nel posto sbagliato, provavo lo smisurato desiderio di uscire all’aria aperta a giocare con gli altri bambini. E invece dovevo rispettare regole, regole e ancora regole. “Non si può correre, non si può entrare in questa sala, non si può leggere questo libro”.

Negli anni a venire si sono chiesti in tanti se quello che successe fu solo colpa nostra o in parte anche della troppo rigida disciplina. E io, quanto ho rimpianto quel giorno, quanto mi sono sentita colpevole ogni giorno? Quante volte ho desiderato di poter cancellare quel triste giorno in cui decisi con un’altra bambina, Sara, la mia più cara amica, di entrare di nascosto nelle stanze del capo della gilda! Doveva essere una prova di coraggio, un piccolo divertimento e un’evasione dalla rigidità dei nostri giorni. Ma quel libro così spaventoso e affascinante sullo scrittoio è stato la nostra rovina. Ricordo ancora quanto mi sembrò attraente, con la sua copertina nera lucida costellata di misteriosi caratteri azzurri. Un secondo ed era tra le nostre mani. Un battito d’ali e l’avevamo aperto, accarezzando con le mani gli affascinanti caratteri scritti dal nostro maestro. E poi la sua esile vocina, sopraffatta dall’emozione che pronunciava una parola, estratta misteriosamente da quelle pagine: “Sorgithur”. Come riuscì a decifrarla e a leggerla resta tutt’ora un mistero. Avrei voluto chiederglielo in quel momento, ma prima che potessi emettere anche solo una sillaba, una pesantissima oscurità era scesa sulla stanza, così profonda da impedirmi di vedere Sara, il libro e qualsiasi altro oggetto. Poi quella sottilissima luce che ormai invade i miei incubi era apparsa dietro di me, due occhi si erano stagliati nell’oscurità, una bocca mostruosa era emersa e si era piegata in un orribile ghigno, bloccandomi per la paura. Tutto ciò che potei fare allora fu di alzare la mano sinistra a protezione, mentre quell’entità si scagliava velocemente su di me. Chiusi gli occhi e attesi la fine che non arrivò mai. Un grido spezzò l’oscurità e quando riaprì gli occhi Sara giaceva al mio fianco, gli occhi sbarrati. L’oscurità era svanita e io caddi in ginocchio accanto al suo corpo freddo, le lacrime che cadevano sulla mia mano, orribilmente ed eternamente sfigurata. Fu così che mi ritrovarono poco dopo.

Per tutti i dieci anni seguenti ho convissuto con questa responsabilità, sentendomi colpevole di ciò che successe allora. Mi permisero di rimanere alla gilda, anche se non fu una decisione del tutto unanime nel consiglio. Molti avrebbero voluto infliggermi punizioni molto severe ma desistettero quando scoprirono le reali cicatrici che quel giorno lasciò in me. L’incantesimo che lanciammo allora, nella nostra inesperienza, era un complicatissimo intreccio di conoscenze antiche basato sulla necromanzia e sull’evocazione, troppo potente perché non ci si rivoltasse contro. Da allora tutta la conoscenza legata a queste due scuole è per me inacessibile. Non mi è possibile neanche tentare di leggere il più semplice trucchetto di queste scuole senza che mi si ritorca contro. Nessuno alla gilda è in grado di spiegarsi il motivo, anche se alcuni ipotizzano sia un tentativo della mia anima di preservarsi, come se un piccolo frammento di essa fosse rimasto legato a quell’entità e si proteggesse negandomi l’accesso.
Per compensare questa mancanza ho speso tutta la mia vita ad aumentare le mie conoscenze quasi con furore e bramosia, tanto da perfezionare al massimo della mie capacità l’abilità nella scuola dell’alterazione.
Penso sia stata una scelta abbastanza logica per me, è un lato della magia che mi permette di rassicurare il mio spirito. Mi da la forza e la conoscenza per difendere me stessa, cosa che m’illudo possa aiutare in futuro a scacciare questi incubi, e l’oscura ombra di quell’entità.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.

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