Narrativa Contemporanea, Parole di Donna, Recensioni

Perdersi e ritrovarsi: La donna gelata di Annie Ernaux

È passato un tempo lungo dall’ultima recensione. Così lungo che, in un primo momento, ho fatto fatica a prendere l’iniziativa. Ci ho rimuginato su per giorni, durante i quali l’idea di tornare su questi lidi e lasciar scorrere emozioni e sensazioni si è fatta sempre più reale, più pressante. Fino ad esplodere e a costringermi ad aprire svelta una pagina, senza neanche scrivere titolo e nome dell’autrice, per lasciar fluire il tutto come una marea inarrestabile a lungo trattenuta.

Ma va bene così, d’altronde questo è il libro giusto per lasciarsi trascinare dalle parole e dalle emozioni. È quello che fa la stessa Ernaux tra le pagine del suo “La donna gelata”, stendere un fitto intreccio di parole e ricordi che paiono quasi senza senso, finché non si riesce a coglierne il ricamo finale.

Un viaggio per mari irrequieti

Il primo impatto con “La donna gelata” è di straniamento, quasi di soffocamento. Il mare di ricordi di Ernaux è un mare in tempesta, alterna sprazzi di sole a piogge scrocianti che lasciano senza fiato per la sorpresa. La sua infanzia come figlia amata e sostenuta è una costa dorata dalla quale salpa tutta la sua vita. L’adolescenza, un attraversamento irto di pericoli, mareggiate e uragani imprevisti. L’età adulta, la fredda crudezza dell’oceano aperto, una vastità affrontata pensando di avere una direzione, per poi scoprire che si era sempre trattato solo di un subdolo miraggio.

Ci vuole un po’ a penetrare la cortina confusionaria della quale si ammantano i ricordi, ma una volta trovata la traccia, la vita di Ernaux ci travolge con una vividezza tale che ci pare quasi di star leggendo la nostra, di vita, e non quella di una sconosciuta.

Ma, d’altro canto, la storia della fanciulla e della giovane donna che è stata Ernaux non è poi molto diversa dalla storia di un gran numero di altre di noi. Cresciute nell’illusione di essere diverse, estranee dalle distinzioni di genere, di ceto sociale, di condizioni, per poi arrivare all’adultità e scoprire che siamo sempre state come tutte le altre. Educate alla delicatezza e alla perfezione, a sognare un grande amore e una bella casa, eterne figlie di quei condizionamenti all’apparenza sotterranei che ci sono in realtà sempre appartenuti, anche se non ce ne rendevamo conto.

E arrivate al momento di decidere cosa fare di noi stesse – cosa studiare, dove lavorare, come realizzarci – ecco che quei condizionamenti sopiti riemergono in tutta la loro potenza; deviano il nostro cammino, e ci trascinano verso un matrimonio e una maternità che non sono altro che desideri indotti, eppure inevitabili.

La sua storia, la mia storia

Mi sono rivista con un certo dolore nella giovane Annie, nei suoi sogni di indipendenza, di una vita migliore, dai contorni però sempre sfumati e inafferrabili. Mi sono ritrovata nel suo studiare per dovere, per arrivare ad essere qualcuna, più che per reale passione o per vocazione. Nel suo indugiare nel desiderio di bellezza, di essere in grado di creare qualcosa che appartenga solo a noi, che ci rappresenti e ci porti via dalla banalità del mondo.

Ricordo la mia, di adolescenza, nella quale lo sguardo di un ragazzo, la sua approvazione silente espressa al più con un sorriso e un cenno di assenso, erano il centro di ogni mio sforzo e di ogni mia aspirazione. Ricordo la sofferenza di non sentirmi mai abbastanza, mai adeguata, sempre meno delle altre compagne che sembravano sapere esattamente cosa fare e cosa dire per essere guardate, invitate a uscire, baciate. Anche io ho avuto le mie Brigitte, amiche capaci di mettere in luce ogni mio difetto, di enfatizzarlo tanto da farlo sembrare impellente e al contempo irrisolvibile.

Anche io mi sono misurata più volte con la figura di mia madre, ho criticato silenziosamente la sua mancanza di interesse per l’apparenza esteriore, il suo sentirsi realizzata anche senza essere una donna modello. Non capivo come facesse, lei, a liberarsi da quei condizionamenti, dove trovasse la forza per essere semplicemente sé stessa. La invidiavo, e per molto tempo l’ho tenuta lontana. Per poi ritrovarla dall’altra parte una volta passato il ponte dell’adolescenza, ritrovando in lei una complice, una confidente con la quale poter essere finalmente me stessa, diversa nella mia unicità.

Perdersi e ritrovarsi

Era parecchio tempo che un libro non mi faceva l’effetto de “La donna gelata”. Parecchio, troppo tempo, che non mi perdevo tra le pagine e lasciavo che il loro fiume in piena mi attraversasse e poi venisse a riversarsi su queste pagine virtuali. La sensazione è stata inebriante, mi ha fatto desiderare di leggere altro con questa potenza, di tornare a riconnettermi con quella parte ardente di me che cerca nelle letture un modo per comunicare con sé stessa, oltre che per far viaggiare la fantasia.

Anche se il mio destino, per il momento e per fortuna, si è discostato da quello della scrittrice, lo spettro della brava moglie e della brava madre è sempre lì, a incombere su di me. Ne sento la carezza tiepida quando mi interrogo su cosa sarò in futuro, quando cerco di capire dove mi porterà la mia marea. È inevitabile, me ne rendo conto, è parte delle storie e dei miti che ci formano e circondano tutte.

Leggere i ricordi di Ernaux, però, è stato come fare una doccia gelata, infrangere quell’immagine di donna cristallizzata e perfetta che incombe su tutte noi. Chiudere l’ultima pagina del libro è stato un modo per tornare a respirare. Per dire a me stessa: stai facendo le scelte giuste, l’ideale dell’angelo del focolare è solo questo, un ideale. Nessuna donna reale può sostenerlo davvero senza impazzire.

Un ringraziamento, dunque, ad Annie Ernaux, per questo viaggio dentro le mie aspirazioni e il mio essere donna, per questo filo teso tra noi che mi ha fatta sentire accolta, compresa e cullata. Mi ha trovata in un momento in cui nemmeno io pensavo di aver bisogno di ritrovarmi. Gliene sono grata.

Una foto di Annie Ernaux: seduta su una sedia, veste un abito primaverile rosso, sorride con posatezza alla fotocamera
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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.

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