Racconti, Scrittura

Primo sangue: un racconto fantasy di Andrea Corina

“Primo sangue” è il secondo frammento di una serie ispirata al gioco di ruolo Warhammer Fantasy, scritta da Andrea Corina (autore già noto tra le pagine di Chiacchiere d’Inchiostro). Il racconto segue le vicende di Dwalin, nano dal passato tragico in cerca di vendetta e di riscatto. Trovate il primo frammento qui.

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Non vi sono parole in Khazalid per descrivere gli addi, non per questo genere almeno; certi viaggi cominciano nel silenzio, fra le ombre di una stanza, con il letto ancora caldo ed il volto di chi si ama rigato dal dolore.

Molta è ad oggi la pioggia che ha avuto la cortesia di celare le lacrime figlie di quel giorno, innumerevoli i passi che hanno portato il morituro alla rocca di Karak Kadrin e poi lungo la sua strada di redenzione.

La barba ispida si fa largo da ormai due lune fra la pelle dura e conciata dalle avversità, dando sempre più allo Sventratore l’aspetto che le razze giovani si aspettano di vedere al cospetto di un nano; Dwalin giorno dopo giorno continua la sua marcia incessante verso nord, senza una vera meta se non quella di cacciare l’orrida belva che gli aveva strappato l’onore o almeno poter morire nel tentativo.

Gli spettri però, così come i nostri incubi più profondi, non lasciano un segno tangibile né tracce da poter seguire ed a quel modo l’abominio aveva allora abbandonato l’accampamento ancora fumante sotto il rovente icore versato dalle proprie fauci; il morituro, dunque, si limitava da quel dì a procedere spinto più dalla rabbia che dalla ragione, guidato dal dolore e non dall’istinto del cacciatore.

È l’ennesima notte di solitudine quando Dwalin, braccato da un inverno incalzante, si trova costretto a bussare all’uscio di una vecchia casa; sino a questo momento aveva evitato accuratamente gli insediamenti degli umani, eppure morire all’addiaccio lungo una strada fangosa non porterà onore e redenzione né a lui né alla sua memoria, così, accompagnato da una sorta di grugnito di disapprovazione, la mano del nano si abbatte contro la porta.

“C’è qualcuno? Cerco solo riparo per la notte”

Tutto tace.

Un ghigno, si dipinge sul volto dello Sventratore, dandogli un aspetto ancor più truce e grottesco. La casa sembra evidentemente abitata, si tratta di poco più che una capanna, uno di quei rifugi fragili e mal assortiti come solo le mani di una razza così giovane e inesperta potrebbero realizzare; il proprietario aveva ben ragione a fingersi assente, vivere in un ammasso di legna traballante avrebbe inculcato timore e paura in chiunque sano di mente.

Eppure, quel dannato ammasso di paglia e vecchi rami rimane comunque l’unica cosa che separa Dwalin dal micidiale torpore che questo gelido venta porta con sé; il braccio, dunque, fa per sollevarsi ancora quando una tenue luce traccia una mezzaluna sul volto ispido del nano e l’uscio si schiude.

“Chi siete? Se venite con intenzioni malvage sappiate che non vi temo in modo alcuno”. La voce è ferma seppur incrinata dall’età

Agli occhi del viandante si palesa ora un uomo curvo, evidentemente avanti con l’età, poggiato ad una lancia forse più vecchia di lui.

“Per Ulric, che io sia dannato, cosa diamine ci fa qui uno come te? Via! Porti sventura!” dice il vecchio

Gli occhi di Dwalin avvampano d’ira e le gote si infiammano mentre prova a trattenere la rabbia, come si permette questo traballante mucchio di ossa a puntare verso di lui, un guerriero dei Monti Grigi, un’arma la cui fattura non potrebbe neppur esser assimilata a quella che i nani avrebbero usato per forgiare un coltello da formaggio! Poi lo sguardo del guerriero finisce sul letto che si scorge attraverso l’uscio dischiuso, una forma ancor più fragile dell’uomo che gli si para ora innanzi giace sotto le coperte.

Un volto come il proprio, in una notte come quella deve sicuramente risvegliare i sentimenti e le superstizioni più ancestrali, inoltre chiunque con qualcuno a cui badare ed un po’ di senno non avrebbe mai aperto quella porta, se non armato di rancore e possibilmente di un po’ di acciaio.

“Allora? Stolto io ad aver aperto quest’uscio, allontanati o… o… ti infilzo lì dove ti trovi!”

Il Respiro del nano si fa più calmo. “Il coraggio non ti manca vecchio e non intendo recarti offesa in alcun modo, così, se vorrai io tornerò sui miei passi, ma se sarai abbastanza lungimirante da riporre quell’attrezzo o arma, come la vuoi definire, potrò pagarti bene e scomparire alle prime luci dell’alba.” Detto questo, Dwalin infila una mano nel borsello e ne estrae un pezzo d’argento.

Un pezzo d’argento per gente come quella che si trova dall’altra parte di quella porta può vuol dire una vita priva di stenti per molto tempo, cure e forse divenire esso stesso fonte di vita, uno scambio più che equo dunque; a quella vista lo sguardo del fattore si tinge di stupore.

“Do… dormirai nella stalla, dietro alla casa e non fare nulla di quelle cose strane tipiche di voialtri.” Proferite queste parole, il vecchio chiude la porta con fragore lasciando il nano sull’uscio.

In un primo momento il viaggiatore rimane incredulo, poi sente armeggiare al di là delle mura sottili e sussurrare alcune parole, non ne capisce il senso eppur sembrano dette con il tono dolce di un amante, parole piene di cura e premura, di quelle che non ci si immagina possano sfuggire ad una bocca piagata dal tempo quale quella di quel vecchio.

 In fondo anche Dwalin aveva usato quel tono molte lune fa, sotto questo cielo scuro e privo di stelle si trova solo un uomo che, come lui un tempo, ha qualcuno da proteggere; poi la porta si riapre.

“Andiamo, non vorrai mica rimanere lì tutto il tempo vero?” Il vecchio ora porta una vecchia pelle conciata e sempre poggiandosi sulla lancia ricurva fa strada al nano. “Forza, forza, queste nubi sono araldi di pioggia e nevischio, dannazione, devo esser divenuto davvero avido per uscir fuori con un tempo così”

“La tua cortesia non sarà dimenticata, vecchio.” Detto questo il guerriero fa scivolare il pezzo d’argento nella mano dell’uomo.

“Ecco, ecco puoi dormire qui, vi è della paglia e le capre tengono ben caldo, più di un braciere acceso, qui vi è qualcosa da metter sotto i denti.” Il vecchio tira fuori da un fazzoletto sdrucito un pezzo di pane ed una sostanziosa fetta di formaggio. “Avrai fame no? Lo mangiate il formaggio voi vero?”

“Si lo mangiamo.” La voce di Dwalin è greve e profonda, graffiata dalla rabbia, tesa su nervi oramai fragili e non inclini a sopportare ulteriormente il tono dell’uomo.

“Allora, ti piacerà.” Detto questo l’anziano fattore, forse dissuaso dal truce sguardo avuto in risposta o semplicemente stanco dell’arida conversazione, torna sui suoi passi.

Come promesso, l’alba vede Dwalin incamminarsi verso nord, divenendo poco più che un aneddoto da raccontare attorno al fuoco per una coppia di anziani allevatori di capre.

La strada prosegue dritta, quasi scavata a forza fra questi boschi fitti e a far compagnia al viaggiatore non vi è null’altro che il suono dei propri passi, poco prima del mezzodì però uno strano odore distoglie lo Sventratore dai suoi pensieri.

Un fumo nero e denso proviene dalle proprie spalle, non rammenta in alcun modo di aver avvistato le tipiche carbonaie che spesso si possono trovare ai margini dei boschi e a pensarci bene non è passato davanti a nessun edificio, se non quello ove aveva trovato riparo solo poche ore prima.

 Non vi è motivo alcuno per provare interesse o addirittura preoccupazione per quanto sta avvenendo, eppure invece che ai modi sgraziati del vecchio non riesce che a pensare a quelle poche parole di conforto che l’uomo scorbutico aveva regalato alla propria compagna.

A volte agiamo spinti dal puro istinto, non è né riconoscenza né bontà quella che muove i piedi del nano verso sud, ma solo il senso di vuoto lasciato dalle persone che non può più proteggere, la colpa che lo affliggerà anche dopo aver trovato la propria morte in battaglia e riscattato il proprio onore, l’onta di aver abbandonato chi ama per poter far tacere gli spettri del proprio fallimento.

Seppur un nano possa marciare incessantemente senza fermarsi, molta era la strada già percorsa e quando egli giunge allo spiazzo fra gli alberi ad accoglierlo vi è solo cenere.

Ancor una volta il cielo ricopre la sua pelle con un manto grigio, eppure oggi non è stata un’empia creatura partorita dal profondo nord a portare la morte, ma l’operato dell’uomo.

I corpi senza vita giacciono l’uno a fianco all’altro, ancora avvinghiati fra loro tra la legna arsa dalle fiamme, ovunque segni di lotta e saccheggio.

Non vi è onore né pietà in queste terre dimenticate dallo sguardo degli Avi, quale mano vile può aver mosso la lama contro una coppia di vecchi? Poi delle voci lontane portano con sé la risposta.

“I bastardi non si sono neppure degnati di darsi alla fuga ed allontanarsi da queste terre.” Le parole sfuggono senza freno alle labbra di Dwalin.

Quattro demoni travestiti da uomini si sollazzano con il frutto del male perpetrato, ogni sorso di vino o morso di formaggio è uno sputo su anni ed anni di sangue e sudore versati in una vita di avversità, ogni risata un insulto alla memoria di coloro a cui questi balordi hanno strappato la vita.

Lo Sventratore si concede solo un attimo, un secondo all’ombra degli alberi per osservar bene le proprie prede: uomini viscidi, dai volti pallidi e smunti incorniciati in vecchie giubbe ed usberghi sfrangiati, parassiti capaci solo di suggere ingrati al seno altrui, randagi senza un capobranco degno di questo nome; poi un urlo di guerra squarcia il cielo plumbeo ed una folle rabbia strappa Dwalin alla realtà.

Il pesante maglio si muove con una velocità innaturale, alzandosi ed abbassandosi come il martello di un antico fabbro, descrivendo archi cremisi ad ogni colpo, dopo pochi istanti gli sguaiati versi di giubilo dei banditi cedono il posto a grida, pianti, rantolii.

Fra i quattro uomini, se così posson esser definiti questi vili che nulla hanno che spartire con la stirpe degli Umberogeni, solo uno ha il tempo o forse il coraggio di estrarre la spada; adesso è lì tremante, nascosto da una maschera di arroganza mentre i calzoni si bagnano del suo vero umore.

“Tu…tu lurido… bastardo… hai ammazzato i miei uo…”

La bocca non fa in tempo a proferire le ultime parole ed il pesante martello esige il suo tributo ancora una volta.

“Uomini?” Il volto del nano ora è chino sul corpo dell’assassino contratto dagli spasmi dell’agonia

“Uomini?!” Ripete Dwalin

“Voi non siete altro che mostri … null’altro che prede.” Detto ciò, il nano volta le spalle al corpo contorto e rantolante, negandogli la pietà che non ha senso riservare ai malvagi.

Ancora una volta il guerriero volge verso nord, spinto dalla vendetta, guidato dal rancore.

Strano come quando si va in cerca di qualcosa lo si possa trovare nelle forme più disparate e così può accadere che chi va a caccia di demoni finisca per trovarli fra gli uomini.

Illustrazione che raffigura il nano Dwalin con un martello sulle spalle
Illustrazione realizzata da Robin Orrù per la sessione di Warhammer Fantasy nella quale ha preso vita il nano Dwalin
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