Racconti

Unicità

C’erano turisti dappertutto.

Tecnicamente era una turista anche lei, ma viveva a soli ottanta chilometri ed era stata a Firenze tante di quelle volte che si rifiutava di considerarsi tale. E poi, al contrario di quella massa indistinta di volti e di voci, quel migliaio di persone venute tutte a vedere la città perché faceva parte del decalogo delle visite del “bravo viaggiatore del mondo” lei aveva uno scopo tutto suo, una personalità. 

Su quella puntava tutto, da sempre. Era il suo punto forte, il suo cavallo di battaglia. La gente poteva anche pensare che Elena avesse un viso banale, degli occhi di un castano slavato e dimenticabile, dei capelli a malapena passabili. Ma tutti quelli che la conoscevano dicevano sempre che la sua personalità era unica: simpatica, brillante, sempre piena di energie.

Anche ora, mentre faceva lo slalom in mezzo alla folla, Elena si sentiva unica: era sicuramente l’unica a sapere esattamente dove stava andando, l’unica a non aver bisogno di consultare ridicole mappe con i monumenti fuori scala o peggio ancora Google Maps, l’unica a non tenere il cellulare sotto il naso rallentando il passo in maniera irritante e costringendo le persone dietro a inchiodare di continuò.

Superò con un balzo una coppia china sui rispettivi smartphone giganti e voltò verso uno dei vicoli, decisa a evitare di infliggersi ulteriormente la via principale. Anche lì, purtroppo, c’erano turisti ma almeno poteva camminare sul marciapiede senza fare continue deviazioni e riusciva persino a fermarsi a qualche vetrina senza rischiare di venire urtata.

Adocchiò quella di un noto franchise di vestiti e storse le labbra: un’altra trappola per persone banali, abiti tutti uguali che rispondevano alla moda del momento, che quell’anno prescriveva discutibili viola accesi e frange. Quando erano mai state piacevoli, le frange?

Elena scosse la testa e andò avanti, beandosi del ticchettare ritmato dei suoi stivaletti di pelle sulla strada lastricata. Li aveva comprati su un sito vintage tedesco e le erano costati un occhio della testa, ma almeno erano originali e rispecchiavano la sua personalità, nulla a che vedere con i prodotti tutti uguali dei negozi moderni.

Sorrise agli stivali e si sistemò il cappello di tartan, anche quello frutto di una metodica ricerca online, un pezzo unico che insieme alla gonna lunga e alla giacca di velluto la faceva sentire davvero a suo agio. Alla fine era tutto lì il segreto del vestirsi bene, Elena ne era convinta: trovare gli abiti che ti fanno sentire te stessa, capaci di raccontare al mondo chi sei mentre ti distinguono dalla massa.

Superò Starbucks e si prese mentalmente gioco dei turisti attratti da quella trappola americana decorata di caffè scadente e cioccolata bianca con la panna montata venduta a prezzi indecenti. Ebbe la tentazione di tirar fuori il cellulare dalla borsa di pelle per controllare se c’erano messaggi ma si trattenne, non voleva certo attirarsi l’odio giustificato di un altro passante impacciato dalla sua lentezza.

Ammirò invece i palazzi, la torre di Santa Maria Novella che a tratti spuntava da sopra i tetti, le vetrine, i turisti che ogni tanto le sfilavano accanto. Adorava l’atmosfera di Firenze, quella vitalità continua che, presa a piccole dosi evitando il bagno di folla all’uscita della stazione, riusciva a renderla una città dal volto cangiante, sempre diverso ogni volta che tornavi a visitarla.

Arrivò davanti a Humana Vintage con il sorriso sulle labbra e, una volta lì, fece un profondo respiro soddisfatto: nulla come uno Humana riusciva a farla sentire a casa, che fosse a Torino, a Milano o a Salisburgo. Quello di Firenze era piccolo degli altri, più di quanto Elena si ricordasse. Erano diversi anni che non ci tornava e la vista della fila di ragazze che bloccavano l’entrata le incrinò lievemente il sorriso.

“Poco male, posso aspettare qualche minuto” si disse, ma dopo una manciata di secondi vide che le persone continuavano ad entrare senza interruzione e si decise a farlo anche lei, nel timore che i pezzi migliori finissero troppo presto. L’interno era più scoraggiante dell’entrata: due rastrelliere di cappotti occupavano tutto lo stretto corridoio e le clienti si ammassavano ai portagrucce alle pareti rendendo il passaggio impraticabile. Ringraziando la sua piccola taglia, Elena sgusciò tra loro e si ripromise di guardare i cappotti in seguito, quando l’entrata fosse divenuta più agibile. Cercò una cesta per riporre le sue scelte ma non ne trovò, in compenso si prese una borsettata da una vecchia signora che occupava tutto lo scaffale delle cinture, e che al suo «Ahi!» rispose con un irritato «Cerca di fare attenzione.»

Elena la ignorò e andò avanti, il sorriso già incrinato che si afflosciava voltando l’angolo e trovandosi davanti a un altro stretto corridoio invaso di ragazze che si contendevano gonne e giacche. Una scala stretta e vuota conduceva verso il primo piano, ma la speranza di avere più spazio a disposizione morì davanti al cartello “Uomo, sport, bambini”.

Elena si fece coraggio e si buttò nella mischia del reparto “Donna”, ritagliandosi uno spazietto tra due ragazze praticamente identiche: giacca vintage, pantaloni larghi anni ‘70, frangetta e capelli a caschetto. Rabbrividì e decise di concentrarsi sulla sua ricerca, per non farsi intristire da quella evidente banalità condivisa. Le grucce delle gonne le diedero il filo da torcere, non c’era modo di estrarne una senza far venir giù le vicine e gli abiti erano talmente compressi che era impossibile leggere la taglia o il prezzo senza provocare una slavina. Se ne lasciò dietro due o tre e andò avanti, guadagnando il corridoio un centimetro alla volta. La rastrelliera ad altezza vita ospitava gonne che nemmeno sua nonna avrebbe messo alla sua epoca, quella di sopra giacche che potevano tranquillamente appartenere alla sua vecchia maestra d’asilo. Con la coda dell’occhio vide che una delle ragazze accanto a lei afferrava proprio la giacca della sua maestra e la tirava giù con soddisfazione ed Elena la compatì: quanto doveva essere brutto non avere un briciolo di buon gusto.

Andando avanti con la sua ricerca, gli occhi che saettavano dalle giacche alle camicie, alle gonne e poi di nuovo alle giacche, Elena riuscì a individuare un completo passabile e lo estrasse, portandosi dietro anche un pantalone e un gilet che non aveva voluto, e che abbandonò sul pavimento con stizza: cavoli loro che uscivano dalla rastrelliera senza essere invitati.

Proseguì fino alla fine dello stretto corridoio, in un balletto difficoltoso in mezzo ad altre ragazze tutte fastidiosamente simili, e poi tornò indietro, senza trovare nulla di più apprezzabile di quel completo giacca e pantalone. “Meglio di niente”, pensò, recandosi ai minuscoli camerini accanto alla cassa.

Dovette aspettare parecchio prima che uno si liberasse, ma quando fu finalmente il suo turno ci si infilò dentro con un balzo e lasciò cadere il suo bottino sullo sgabello. Si prese un attimo per guardarsi allo specchio e storse le labbra: gli specchi dei camerini erano sempre orribili e perfino con la sua mise attentamente studiata appariva al più decente.

Scrollò le spalle e si diede da fare per sbottonare e slacciare. Quando fu vestita dei suoi potenziali acquisti, l’impressione di delusione che lo specchio le aveva regalato poco prima si accentuò. I pantaloni erano meno carini di quello che sembravano nella gruccia, la giacca troppo grande. “Potrei farci dei ritocchi” si disse, e guardò il cartellino per capire se ne valesse la pena.

Dal camerino accanto le arrivò una conversazione, i cui toni si stavano alzando in quel momento.

«Amo’, ma sei proprio sicura di volerla comprare?» disse una voce, che Elena immaginò appartenere a una di quelle ragazze da giacca in pelle e pantaloni a sigaretta.

«Perché no? Non mi sta bene?» miagolò l’altra, decisamente una da Converse e portacellulare di pelliccia.

«Massì che ti sta bene, non è quello…»

«E allora?»

«Be’, quanto costa?»

Qualche secondo di pausa, che Elena immaginò impiegato dalla ragazza-Converse per frugare in cerca dell’etichetta. «25 euro. Non è mica tanto.»

«Dici? E se poi te ne penti, come è successo ieri?»

“Ah, le amiche” pensò Elena, con una punta di ilarità. “Sempre pronte a proteggerti e poi a prenderti per il culo con un’altra amica appena te ne vai”.

«Ma noo, mica me ne sono pentita ieri!»

«’somma. Anna, tu che ne pensi?»

Il suono di una tenda che veniva aperta e poi una terza voce si unì al discorso. «Mah, sono d’accordo. Mi sembra che non ti cada troppo bene, quella.»

«Ma io mica ho detto che non le cade bene…»

«Vabbè, il concetto è lo stesso. Io non la prenderei…»

Un’altra pausa, in cui Elena percepì gli ingranaggi del cervello della ragazza-Converse girare a fatica. «Avete ragione» sospirò infine la ragazza. «La lascio qui.»

Rumore di tenda richiusa, di abiti e di grucce, poi la tenda si riaprì e le tre lasciarono il camerino.

Elena scosse il capo e sfilò i vestiti, ancora una volta ammirata dall’assurdità delle dinamiche femminili. Da tempo aveva deciso che lo shopping era decisamente meglio da sola, così una non rischiava di lasciare nel camerino qualcosa che, fosse stata libera di scegliere con la sua testa, avrebbe comprato senza esitazioni. Si affacciò al camerino della ragazza-Converse e sbirciò la giacca: nulla di indimenticabile, forse per una volta le amiche avevano pure ragione.

Lei invece decise di prendere la sua giacca e di lasciare i pantaloni nel carrello, perché non si sentiva del tutto soddisfatta di come le cadevano. Si rimirò un’altra volta allo specchio e poi andò alla cassa, sollevata che quella tortura fosse finita. Se lo ricordava decisamente diverso, Humana, o forse semplicemente si era abituata a quelli della città più grandi, dove c’erano molto più spazio e decisamente più scelta. Mentre aspettava il suo turno, lo sguardo le cadde su una ragazza che osservava le borse. Una fitta allo stomaco la colpì, insieme alla consapevolezza che la ragazza era vestita praticamente come lei: giacca di velluto, gonna di lino, stivaletti di pelle. Non portava il cappello, ma la borsa che stava ammirando poteva benissimo essere una delle borse che Elena aveva acquistato su uno dei suoi siti vintage preferiti.

La poca contentezza rimasta defluì ed Elena si sentì invasa da una profonda tristezza. Che ne era stato della sua unicità?

«Ciao, è il tuo turno» le disse la commessa, ma Elena rimase ancora ferma a fissare la ragazza, e un’altra cliente dietro di lei la superò con malagrazia.

Elena si voltò per lamentarsi ma vide che questa portava un cappellino identico al suo, calato su capelli color del miele molto più ordinati e fashion dei suoi. Sconvolta, fece per indietreggiare e pestò i piedi di una signora di mezza età, alla quale chiese un veloce «Scusi!» prima di spostarsi di lato per darsi il tempo di riprendersi. Gli occhi, infingardi, continuarono a guizzare per il negozio ed Elena vide addosso alle altre clienti quello che il suo buonumore e la sua convinzione le avevano impedito di vedere prima: gonne, borse, stivali, camicie tutte simili alle sue, a quelle che aveva indosso e a quelle che custodiva come un tesoro dentro l’armadio.

La sua unicità era appena diventata un triste ricordo ed Elena uscì da Humana lasciando il pantalone sopra una rastrelliera, con le lacrime agli occhi e una profonda desolazione interiore.

“Che ne è della mia personalità?” singhiozzò e d’istinto tirò fuori lo smartphone, in cerca di consolazione nel suo familiare mondo virtuale. Si trovò a scrollare la bacheca di Instagram, all’inizio senza vederla. Poi, pian piano, i post e le storie dei suoi siti preferiti la rasserenarono: dopotutto, le sue gonne tedesche erano abbastanza diverse da quelle che aveva visto indossare alle ragazze nel negozio, e sicuramente anche il materiale era tutta un’altra storia. Per non parlare dei vestiti, poi, nessuna di loro aveva dei vestiti come quelli che lei aveva comprato online, e pagato cifre considerevoli per altro. Fece un profondo respiro e scorrere una foto dopo l’altra l’aiutò ad arginare la tristezza, anche se una punta di desolazione rimase piantata in profondità.

Decise che era meglio smettere di pensare all’unicità, in quel momento, e concentrarsi su qualcosa di più piacevole. “Ho bisogno di una cioccolata” realizzò. “Con una montagna di panna, e possibilmente del caramello dolce sopra”. Il pensiero corse rapido a Starbucks, ed Elena non se la sentì di impedirglielo. “D’altronde, se ci vado una volta che male fa?” si disse, mentre apriva Google Maps per cercare la strada più rapida verso la serenità liquida. “Non sarà certo Starbucks a rendermi una turista come tutte la altre”.

divisore

Questo racconto è nato dopo una mattinata a Firenze e un giro da Humana. Anche se io ed Elena siamo estremamente diverse (invidio la sua tenace convinzione di essere unica, io non credo di averla mai avuta), ho provato un disagio molto simile al suo quando sono entrata nel negozio e mi sono fatta largo in mezzo a tante altre ragazze che, come me, erano lì per trovare il “pezzo giusto”, il capo che poteva finalmente farci sentire speciali. Io da Starbucks poi ci sono andata con piacere e non per diluire la mia tristezza, anche perché era la prima volta che lo provavo e la cioccolata si è rivelata davvero buona, però condivido con Elena il fastidio per le orde di turisti che invadono ogni frammento del centro città. Li capisco, senza dubbio, Firenze è una splendida città, ma non posso fare a meno di borbottare animatamente ogni volta che qualcuno di loro mi costringe a deviare il cammino perché bloccato al cellulare in cerca della strada giusta.

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Denise
Sono un’appassionata di scrittura e comunicazione digitale, studio Informatica Umanistica e lavoro alla Casa della donna di Pisa. Nella vita cerco di conciliare i diversi aspetti di me: la femminista, la letterata e l’informatica. Non sempre vanno d’accordo, ma per fortuna sono caparbia e continuo a insistere.

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