Femminismo

Di linguaggio inclusivo e uso non sessista della lingua italiana

Ieri sono stata a un convegno a tema “Linguaggio inclusivo e lotta agli stereotipi” e ho avuto la possibilità di ascoltare la linguista Cecilia Robustelli mentre raccontava come usare la lingua italiana in maniera non sessista. Rifacendosi alle “Raccomandazioni” di Alma Sabatini del 1987, Robustelli ha prima segnalato i problemi di sessismo più evidenti nel nostro modo di comunicare (un esempio su tutti? Il fatto che nel 2022 qualcuna trova ancora normale farsi chiamare “Il signor Presidente”), per arrivare poi a spiegare quali sono gli elementi ai quali dovremmo prestare attenzione per comunicare in maniera davvero inclusiva.

Ne riporto giusto alcuni per darvi un’idea generale:

  • Evitare il maschile sovraesteso per riferirsi a persone di generi differenti
  • Non usare il genere grammaticale maschile per i termini che indicano ruoli professionali o istituzionali ricoperti da donne 
  • Utilizzare quando possibile (e quando consono) la doppia flessione maschile/femminile (es: “buon giorno a tutte e a tutti”)
  • Usare la lingua in maniera intelligente, affidandosi a perifrasi per non dover esplicitare il genere quando non necessario

L’ultimo punto, soprattutto, ha generato in me profonde riflessioni, ma ci torneremo tra poco.

Intanto, è utile notare che il discorso di Robustelli affonda le sue radici non solo nello studio della lingua italiana, ma anche in quello delle teorie femministe sull’uso del linguaggio inclusivo. Un punto di contatto secondo me molto importante, che è bene tenere a mente quando si affronta questo tipo di discorsi.

Doppia flessione maschile/femminile: e per le persone non binarie?

Una domanda dal pubblico ha messo in luce alcune problematiche del discorso di Robustelli che, come avrete di certo notato, menziona solo due generi linguistici: maschile e femminile.

Ma Robustelli non si è certo tirata indietro: ha riconosciuto che la grammatica italiana non contempla (e forse non contemplerà mai) l’esistenza del genere neutro e, accogliendo l’istanza del pubblico, ha precisato che è bene non confondere i generi grammaticali (che descrivono il sesso dell’oggetto rappresentato, ove questo ne possieda uno) con il genere nel quale il soggetto descritto si riconosce. Secondo Robustelli, non è alterando la grammatica della lingua che si attuano i cambiamenti nella società. Piuttosto, è cambiando il valore che si dà al concetto di genere maschile o femminile (o binario) che si attua il vero cambiamento.

In questo senso, il suo invito è chiaro: prima di ricorrere a schwa, asterischi o altri simboli, dovremmo analizzare in profondità il valore che diamo alle singole parole, capire perché le persone faticano a identificarsi nelle categorie di genere precostruite. E da lì ripartire per costruire un linguaggio che sia inclusivo ma non snaturi la lingua stessa dal quale si origina.

Una posizione che sento di condividere, ma che mi lascia anche molti dubbi. Come lei stessa ha ammesso, infatti, da questo discorso rimarrebbero comunque escluse proprio quelle persone che non si sentono – e forse non si sentiranno mai – “uomini” o “donne”, qualunque significato vogliamo dare a queste categorie.

Come fare dunque a comprendere anche loro nei nostri discorsi? La risposta è proprio nel terzo punto del discorso.

Usare la lingua in maniera intelligente

Seguendo il filo del ragionamento di Robustelli, un modo è quello di rendere il genere un elemento non esplicito della nostra comunicazione, almeno in tutti quei contesti in cui non sia necessario esplicitarlo.

Che bisogno c’è, d’altronde, di dire “Buon giorno a tutte e tutti”, quando possiamo dire “Buon giorno”? Perché costruire frasi che fanno riferimento al genere di chi ci ascolta, quando possiamo usare con sapienza la lingua per veicolare davvero inclusivamente lo stesso messaggio?

Faccio un esempio per chiarire meglio questo concetto.

Prendiamo ad esempio la frase:

“Siete pregati non gettare la carta per terra”. Se volessimo trasmettere efficacemente il messaggio senza riferirci al genere di chi legge o ascolta, potremmo tranquillamente dire “Vi preghiamo di non gettare la carta per terra”.

O ancora, invece che rivolgerci a una platea dicendo:

“Cari studenti e care studentesse” o “Gentili signore e signori”, potremmo optare per un più neutrale: “Gentile pubblico” o “Care persone riunite qui” e così via.

Non vi sfuggiranno, immagino, i punti deboli di questa soluzione: non solo, infatti, genera frasi più complesse e più “stranianti” (quest’ultimo punto, in realtà, si risolve semplicemente con l’utilizzo); ma soprattutto, rende molto più complesso articolare il proprio messaggio.

L’abitudine di riferirci al genere è talmente forte in noi che diventa uno sforzo notevole ribaltare i nostri paradigmi per formulare comunicazioni che non ne facciano proprio menzione.

Però, qui sta il lato positivo di questa faccenda: si può imparare, ed è solo questione di abitudine acquisire abbastanza esperienza da maneggiare questo strumento.

Potete provare anche voi: immaginate una frase che menziona il genere (vi do uno spunto: “che bello che siete venuti a trovarci!”) e poi maneggiatela e reinventatela finché non trovate la versione priva di riferimenti al genere che più vi soddisfa. È di certo un esercizio stimolante, che oltre che inclusivo può rivelarsi anche utile per acquisire maggiore dimestichezza con la nostra lingua.

Ma davvero possiamo dimenticare così facilmente il genere nei nostri discorsi?

Rimane, però, una questione aperta e per me abbastanza centrale: possiamo davvero ritenere il genere un elemento trascurabile dei nostri discorsi? Anche immaginando solo contesti nei quali non ci stiamo riferendo direttamente al genere delle persone che abbiamo intorno, nei quali potremmo tranquillamente evitare di nominarlo, non ci staremmo lasciando comunque dietro qualcosa?

Penso alla tradizione femminista che guarda al corpo come il centro della politica personale e collettiva, e che vede nelle esperienze che la persona ha vissuto un elemento da interpretare anche e soprattutto in funzione del genere di appartenenza, e mi sembra che la soluzione lasci indietro pezzi importanti.

Una donna che diventa ministra, ad esempio, o sindaca o presidente, ed è cresciuta e si è formata in contesti di attivismo e di riflessione femminista, ha spesso il suo essere donna al centro della propria politica. Evitare di menzionare il suo genere e quello delle altre persone che ha attorno non rischia di snaturare l’importanza della sua presenza e della battaglia che le ha permesso di essere lì?

O ancora, una persona non binaria che fa un discorso per comprendere le altre persone non binarie che ha attorno, può davvero omettere il loro genere – o meglio, il loro non riconoscersi in alcun genere, e dunque l’esigenza di ricorrere a simboli per rappresentare il proprio posizionamento politico – senza perdere parte della potenza del discorso stesso?

Sono domande per le quali non ho ancora una risposta, e mi chiedo se ne esista davvero una che possa soddisfare ogni istanza e bilanciare tutti questi elementi. Se a voi viene in mente, non esitate a propormi il vostro punto di vista. In questo momento, sono in cerca di nuovi spunti attraverso i quali estendere il mio ragionamento.

Concludo con un dettaglio, che forse le persone più attente tra voi avranno già rilevato: questo testo è scritto senza mai fare menzione del genere di chi lo legge. Ci è voluto forse un po’ più di tempo rispetto al normale, ma secondo me ne è valsa la pena. Voi che dite?

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Denise
Femminista, appassionata di lettura e scrittura, è cresciuta con un libro in mano e la testa immersa nelle storie. Studia Informatica Umanistica presso l’Università di Pisa e lavora come segretaria alla Casa della Donna. Nel tempo libero, impara a creare nuove storie.

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