Questo racconto fa parte della seconda call di Chiacchiere d’Inchiostro, un progetto pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.
Oggi Andrea è tornato a casa piangendo. Quando il padre e la madre hanno sentito cosa gli ha raccontato un amico, hanno capito che era giunto il giorno temuto da tempo, il momento in cui avrebbero dovuto iniziare a infrangere i suoi sogni. Gli hanno parlato, gli hanno detto che non esisto. Ma sbagliano.
Sogno, dunque sono.
Ogni volta è differente. I sogni di Andrea sono luci che illuminano le stanze di un castello e filtrano dai vetri nella notte buia. Una delle finestre sparisce alla vista: la prima luce è stata spenta, la mia nemesi è già all’opera. Devo fare in fretta, prima che del castello non resti che un rudere buio. Scosto l’anta del portale in legno con la sommità ricurva del pastorale ed entro.
Sono il bagliore negli occhi, sono il sorriso al crepuscolo; sono la schiena che si rialza.
Lo faccio da talmente tanto tempo che la mia vita sembra non essere mai stata diversa. Eppure ero un uomo, una volta. Quando alcuni bambini del mio villaggio scomparvero, cercai e stanai il colpevole: il nostro vescovo, che ambiva a ritrovare la propria innocenza cibandosi della loro, degli occhi con cui guardavano il mondo. Lo affrontai e persi, mi uccise. Striò le mie vesti, mi trafisse con il pastorale e mi lasciò cadere dall’alto della torre del campanile. Un uomo rosso del suo stesso sangue sul tetto della chiesa: è curioso come nascano le leggende. Mi uccise, ma non morii. Non per un dono divino, non per un evento esterno; non morii perché, fino all’ultimo, non smisi di credere di poter salvare quei bambini. E ci credo ancora, credo ancora nei sogni. E vigilo sui mortali affinché facciano lo stesso, dal primo vagito all’ultimo sospiro.
Sono il lieto fine, sono il primo amore; sono l’oltre.
Le luci si stanno spegnendo, una dopo l’altra. Avanzo nel buio, in ogni camera intravedo una candela tagliata di netto. Lo trovo in una stanza vuota se non per l’eco di risate felici, sul muro l’ombra sorridente di un bambino si abbandona sicura all’indietro tra le braccia della madre. Nella fantasia di Andrea il mio avversario è glabro, occhi bianchi, corpo ossuto avvolto in un costume scuro, sul petto un simbolo che non riesco a decifrare; sembra uscito da un cartone animato. Regge in mano un’ascia a due lame, pericolosamente vicina alla candela al centro della stanza.
Si accorge di me, inclina la testa di lato e mi fissa per un istante con i suoi occhi spenti, poi scaglia con forza l’ascia che inizia a roteare. D’istinto sollevo il pastorale a mezz’aria, riesco a deviarla, ma una lama mi sfiora la guancia sinistra e tinge di rosso la mia barba bianca. Non so quali altre armi, abilità o poteri possa avere nell’immaginario di Andrea, ma non ho intenzione di scoprirlo. Scatto in avanti e con la punta del pastorale lo colpisco in piena fronte, poco sopra gli occhi. Poi lo guardo dissolversi in cenere.
Sono il sogno, la speranza, la fiducia. Sono gli occhi di un bambino.
Sento qualcuno alle spalle, mi volto già sapendo chi sia.
«Sei un supereroe?» mi domanda Andrea.
Non so cosa io sia, ma mi piace il modo in cui mi vede Andrea: sì, sono un supereroe. Oltre la finestra, la figura a cavallo di una scopa che si staglia contro la luna mi ricorda che non sono il solo. Ma a ognuno la sua storia.
Mi accovaccio sulle ginocchia davanti ad Andrea, lo guardo negli occhi e sorrido. Poi lo prendo per mano e ci incamminiamo lentamente, avanziamo stanza per stanza, grattiamo via un po’ di cera e riaccendiamo ciò che rimane delle candele. Alcune sono state tagliate più in alto, altre più in basso: quale più quale meno, bruceranno tutte ancora per un po’.
Ne manca soltanto una, la prima che si è spenta. È in una stanza colma di doni avvolti in carta colorata e fiocchi arricciati. Sotto l’albero addobbato c’è un disegno che potrebbe somigliarmi un po’, se soltanto il rosso del costume fosse più scuro. Non c’è niente da fare, la lama ha tagliato troppo in basso e ha lasciato ben poco; questa candela proprio non riusciamo a riaccenderla.
Andrea mi rivolge uno sguardo triste e si abbandona a un abbraccio.
«Non ti dimenticherò» mi sussurra all’orecchio.
Sì, Andrea, mi dimenticherai. Sarò soltanto il fumo di una candela che si spegne. Ma poco importa, ciò che conta è che tu possa sempre scorgere una luce nel buio.
Sono il guardiano del faro.
Qualche nota sull’autore
Loredano Cafaro (Torino, 1971).
Fondamentalmente un tizio di poche parole.