Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

Il Rubino di Sangue: un racconto di Alessandro Chiusi

Questo racconto fa parte della seconda call di Chiacchiere d’Inchiostro, un progetto pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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Numerose dicerie aleggiano attorno alla persona del signor O. Alcune sono pure invenzioni, molte si basano sulla realtà, tutte suonano incredibili ed esotiche. Ultimamente, ne sono giunte alle mie orecchie alcune veramente disdicevoli e scandalose, che intendo confutare. 

Ho infatti avuto la fortuna, derivante come spesso accade da una terribile sventura, di conoscerlo di persona, e ne ho osservato da vicino metodi e carattere. Un privilegio che poche persone possono vantare, o forse un travaglio inflitto a poche sventurate anime che comunque intendo sfruttare al meglio, per il meglio.

O almeno tentarci, perché mentre scrivo queste memorie, la mia penna è appesantita dall’incertezza, dal dubbio che la loro pubblicazione possa cagionare più danno che sollievo al signor O.

Per questo ho deciso di affidarle a voi. Il vostro giornale ha sempre dimostrato un’integrità e una discrezione senza pari, superata forse solo dalla sensibilità nel selezionare il materiale. Suonerà oramai banale e stantio ma non posso non ripetere un’ennesima volta come il regno intero, e forse perfino il mondo stesso, vi sia debitore per come avete gestito la vicenda dell’Assassino Purpureo. Se c’è qualcuno in grado di giudicare il peso di una storia e le onde che essa produrrà nel lago dell’esistenza, siete voi.

Ma adesso la finirò con le amenità e alla storia passerò, a voi decidere se degna sarà d’un posto tra le Verità.

Il momento in cui ebbe inizio la mia sventura potrebbe forse essere ricondotto all’istante stesso della mia nascita. Per facilitare l’esposizione però, userò come punto di partenza una piacevole mattina di maggio, nella quale una lettera giunse sulla mia scrivania. L’anno esatto, così come il luogo, preferisco non rivelare. Non per vergogna o timore di ripercussioni -che grazie anche al signor O., non più turbano i miei pensieri- ma per rispetto verso altre persone la cui vita non desidero rovinare. Il mio nome anche non è importante o, come ebbe a dirmi un giorno un buffo viandante, è troppo importante per essere blaterato così a caso e lo terrò quindi per me.

Dicevo di una lettera. Essa non portava mittente né timbro postale. Il mio cognome, però, vi era apposto con inchiostro violetto ed eccellente grafia, perciò non gli diedi troppa importanza, e la sistemai nella tradizionale pila di corrispondenza. 

I nostri clienti infatti sono molto discreti, e più anonima è una missiva, più prestigioso è il mittente. Fino ad arrivare alla corona stessa, le cui buste non son che semplici quadrati di pergamena vellutata con un sigillo imperiale d’una ceralacca sottilissima e quasi invisibile.

Passò quindi quasi una settimana prima che trovassi il tempo di aprirla.

E di maledirmi per non averlo fatto prima. O forse per averlo fatto del tutto.

Ovviamente non ne riporterò il contenuto esatto, ma un suo sunto.

Un anonimo gentiluomo, il cui interesse sosteneva essere il bene superiore del regno -ah, la serpe!-, affermava di possedere numerose e incontrovertibili prove di certi eventi a dir poco scandalosi che avrebbero macchiato per sempre il buon nome mio e dei miei dipendenti. Materiali che, diceva, sarebbe stato spiacevole se fossero caduti nelle mani sbagliate.

A voi può sembrare una minaccia di poco conto, facilmente trascurabile. E nella maggior parte dei casi avreste ragione, ma non in questo. Vedete, la mia impresa si occupa di gemme preziose. Curiamo ogni passo che una pietra compie da quando nasce dal ventre della terra a quando finalmente trova il suo posto in un diadema reale, o nella mitra di un papa. Il nostro è un lavoro delicato, e i nostri clienti lo sono ancor di più. La corona non può tollerare che gli artigiani cui commissiona i suoi gioielli abbiano una reputazione meno che immacolata e uno scandalo significherebbe, finanziariamente e socialmente perlomeno, morte certa. È facile immaginare quanto feroce sia la competizione quando le commesse sono così sostanziose, ed è da quando mio padre è venuto a mancare che innumerevoli sedicenti gioiellieri, indegni d’esser chiamati perfino tagliapietre, hanno iniziato a girarmi attorno come avvoltoi, in attesa della più piccola opportunità per acquisire o rovinare la mia impresa.

Il mio animo, quindi, era già turbato dalla prospettiva di dovermi difendere ancora una volta, e continuando la lettura non fece che sprofondare ancor di più nell’abisso della disperazione.

Per certificare la bontà delle sue minacce, l’anonimo ricattatore scendeva nei dettagli. Luoghi, momenti, perfino il nome della mia segretaria e assistente, che chiamerò signorina E., verso la quale il ricattatore mi accusava di avere un attaccamento romantico. 

Ora, dopo aver attraversato l’ordalia, non mi trattengo dall’affermare con vigore che non un semplice attaccamento mi lega alla signorina E., ma vero e proprio amore, profondo e non dissimile da quello cantato sui palcoscenici e sotto i salici nelle notti stellate che profuman di gelsomino, parimenti nobile e forte.

Ma in quel momento, il colpo fu terribile. Sentii una la nausea salire, mentre mi immaginavo sulla strada, senza un soldo. 

Come stoccata finale, il ricattatore aveva allegato un piccolo rettangolino dai bordi a zig-zag. Una fotografia. Sgranata e sfocata, era comunque di buona qualità, e ritraeva me e la signorina E., in atteggiamenti lascivi.

Non faccio mistero del fatto che l’impatto fu talmente improvviso e violento che persi conoscenza lì per lì.

Rinvenni dopo qualche tempo, col naso dolorante e un solco rosso scavato sullo zigomo dagli occhiali. Accasciandomi sulla scrivania avevo urtato il calamaio, ma senza rovesciarlo, e l’inchiostro non aveva rovinato la lettera che ancora aveva del dolore da infliggermi.

Mi feci coraggio, e continuai. 

L’anonimo ricattatore mi sconsigliava di tentare gesti inconsulti, come allontanare la signorina E., dietro minaccia di divulgare immediatamente il materiale. Come un buon torturatore, però, offriva alla sua vittima un bagliore di speranza, dopo aver estinto ogni luce. Capii subito che avrei accettato qualunque condizione, e in cuor mio seppi che il mio destino era segnato. Mi sconfortai, e mi abbandonai a singhiozzare col viso fra le braccia.

Fu la signorina E. a riscuotermi dalla mia mestizia. Mi confortò e tranquillizzò, aspettando che ritrovassi un minimo contegno, per chiedere la causa di tanto dispiacere. Le mostrai la lettera, e pur col respiro pesante e un’espressione tombale sul viso, concordò sulla necessità di sottostare alle richieste dell’estorsore. Non tanto per il nostro benessere, quanto per quello di tutte le persone che lavorano per noi o con noi, e che sarebbero parimenti finite in disgrazia. Con la morte nel cuore continuammo la lettura, trovando le istruzioni per stipulare un accordo col ricattatore.

Avremmo dovuto recarci in un parco vicino, e cercare una vecchia bibbia sotto una specifica panchina. Lì avremmo trovato ulteriori indicazioni.

Un nuovo tuffo al cuore mi colpì quando lessi che il ricattatore indicava la sera stessa, ovvero parecchi giorni prima, come momento dello scambio.

Decidemmo di tentare lo stesso, dopotutto la panchina era leggermente fuori mano, e in men che non si dica io e la signorina E. sistemammo gli ultimi affari della giornata e ci recammo al parco.

La panchina indicata si trovava sulle sponde di un grazioso laghetto, e fu con un certo disappunto che scorsi un uomo che la occupava. Il disappunto si trasformò in confusione e paura, quando vidi che leggeva una piccola bibbia.

La signorina E. avrebbe voluto assalirlo, nella possibilità che fosse il misterioso ricattatore, ma riuscii a mitigare la sua rabbia, e ci avvicinammo invece tranquillamente.

L’uomo si rivelò essere uno straniero, che passava di lì e si era fermato un momento per riposarsi e ammirare il panorama. 

La signorina E., che non annoverava la pazienza tra i suoi pregi, saltò i convenevoli e chiese subito se poteva riavere indietro la sua bibbia, dimenticata nel pomeriggio.

Lo straniero posò su di lei uno sguardo indecifrabile ma indubbiamente intenso, e per un momento temetti che la signorina E. gli saltasse davvero addosso. 

“Oh, ma certo, certo!” disse all’improvviso lo straniero, e consegnò il libercolo. Senza darmi il tempo di ribattere, o ringraziare, si alzò, si scusò, e si allontanò. Si voltò quando era già lontano, e disse qualcosa riguardo l’importanza di un segnalibro, ma non ci feci molto caso. L’importante era aver recuperato la bibbia, e con essa le prossime istruzioni del ricattatore.

Tornammo alla mia tenuta, e tra le prime pagine della bibbia trovammo un biglietto da visita con la dicitura “O. & L. : detective con discrezione”. A quel tempo le gesta del signor O. erano già famose, e non c’era ragione per la quale il ricattatore avrebbe dovuto usare il suo biglietto da visita come messaggio. Lo mettemmo da parte e riprendemmo la ricerca. E infatti, più avanti, tra due pagine del primo capitolo della lettera ai romani, trovammo una velina piegata più volte, che riportava le istruzioni del criminale.

Egli si compiaceva della nostra ragionevolezza -il vile!-, e scopriva finalmente le sue carte. 

Aveva sigillato in un plico le fotografie e le testimonianze compromettenti. Plico che aveva affidato ad un famoso notaio assieme a precise istruzioni. Questi l’avrebbe scambiato unicamente con un preciso oggetto e, se nessuno avesse fatto lo scambio entro tre settimane, l’avrebbe restituito al proprietario iniziale, il ricattatore, che lo avrebbe a quel punto divulgato. 

Sulle prime, io e la signorina E. tirammo un sospiro di sollievo, perché ci parve una semplice estorsione. Ma tale respiro si spezzò quando leggemmo dell’oggetto da consegnare in cambio del plico: il Rubino di Sangue. Una gemma di estrema bellezza, dai riflessi divini e con un gamut cromatico al pari di un tramonto africano. Una gemma senza prezzo che, purtroppo, apparteneva ad un mio concorrente, il signor B.

Trattare gemme senza prezzo era però il mio mestiere e sapevo che tutto, alla fine, un prezzo lo ha.

La notte stessa scrissi una lettera al signor B., per intavolare uno scambio.

Contavo di poter fare affidamento sull’avidità del signor B., ma ricevetti un sarcastico rifiuto.

Ritentai senza perdermi d’animo e di nuovo ricevetti una risposta negativa. 

Intessei una fitta corrispondenza, carica di offerte sempre più alte e implausibili, fino ad arrivare perfino alle suppliche. Ma nulla riuscì a scalfire il cuore di pietra del signor B.

Quando giunse la sua ultima, definitiva lettera, ero ormai un relitto. Diceva “La risposta è no, no e ancora no. Se volete ammirare il rubino, recatevi alla mostra gemmologica. Il biglietto costa due scellini, ne allego quattro, così potrete usare il vostro tempo in un modo più proficuo dell’importunare i colleghi. Non aprirò vostre ulteriori missive.”, e la sua lettura mi lasciò in uno stato quasi catatonico, con solo la signorina E. a farmi da supporto, da faro nell’oscurità.

Fu lei che, esaminando ancora una volta la bibbia, suggerì di contattare il signor O. Sentivo di aver esaurito tutte le opzioni, e accettai senza troppa convinzione, con la flebile speranza che il detective riuscisse almeno a rivelare l’identità del ricattatore, su cui poi avrei fatto ricadere la mia personale giustizia.

Il signor O. accettò l’ingaggio, e andai di persona ad accoglierlo alla stazione. 

La sua fama, e la sua eccentricità, gli avevano riservato un intero vagone, e fu con mani sudate e tremanti che mi ritrovai davanti alla porta, in attesa che il miglior investigatore del regno ne emergesse.

Quando questa si aprì però, non mi trovai davanti il signor O., ma una donna. 

Di bell’aspetto e con lo sguardo sveglio, mi sorrise, e si presentò come l’assistente del signor O. In questa sede la chiamerò quindi signorina A.

Le sue maniere si dimostrarono impeccabili ma sbrigative, e iniziò subito a pormi ogni genere di domanda. 

Sopportai per svariati minuti quella bordata di interrogativi, e finalmente il signor O. emerse dal treno.

Era un uomo per certi versi attraente. Di corporatura solida ma non incombente, il suo viso portava un cipiglio perenne, e prima ancora di abbandonare la scaletta il suo sguardo corse tutto intorno come alla ricerca di qualcosa, o qualcuno.

Se le maniere della signorina A. erano state sbrigative, le sue furono fulminee.

Chiese semplicemente il mio nome, mi strinse la mano senza esitare, ed espresse il suo genuino dispiacere per la poco invidiabile situazione in cui versavo. Poi gettò uno sguardo oltre le mie spalle, si scusò, e marciò in cerca dell’assistente, che si era volatilizzata. La trovammo che chiacchierava amabilmente con un trasportatore, all’uscita merci della stazione. Il signor O. scosse la testa, e mi chiese se conoscevo una locanda con buona birra e clientela abbastanza rumorosa da poter parlare tranquillamente. Risposi che non ce ne sarebbe stato bisogno, poiché sarebbe ovviamente stato mio ospite. 

Il signor O. annuì, ma insistette perché fosse estesa la stessa cortesia anche alla sua assistente. Accettai senza riserve, il signor O. mi fece segno di far strada, e ci lasciammo alle spalle stazione e assistente.

Nel tragitto verso la mia tenuta ebbi modo di conversare col signor O., che si dimostrò un gentiluomo ammodo, beneducato anche se un po’ burbero, con un’aria inquisitiva da poliziotto e delle mani forti ma segnate da numerose cicatrici. Forse non avrebbe risolto il mio problema, ma in qualche maniera mi sentii più al sicuro con lui al mio fianco.

Il signor O. volle esaminare le lettere del ricattatore la sera stessa. Non interruppe il suo lavoro nemmeno per la cena, e così ci ritrovammo a discutere di ricatti e rubini attorno al tavolo. Io, la signorina E., il signor O., e la signorina A. Quest’ultima invitata sotto espressa e imprescindibile richiesta del signor O.

“L’intelletto lavora meglio in un ambiente libero da distrazioni” rispose quando gli chiesi il motivo di tanto riguardo. “E se dovessi mantenere il ricordo di tutti i casi, le procedure e le nozioni, la mia mente sarebbe un bazaar terribilmente disordinato e non concluderei nulla. La signorina A. si occupa di appuntare, archiviare e ritrovare tutte le informazioni necessarie. Il suo ruolo è assolutamente essenziale.”

Aveva detto quelle parole con convinzione e, anche se genuine, suonarono come se non gli appartenessero. Inoltre, avevo scorto i due scambiarsi certi sguardi d’intesa, e iniziavo a nutrire il sospetto che la signorina A. potesse essere per il signor O. quello che la signorina E. era per me. Ma non domandai oltre.

Durante la cena il signor O. rimase chiuso in un silenzio quasi completo, impegnato in qualche complicata riflessione, mentre la signorina A., domandava i più disparati dettagli. Come era stata piegata la velina, che giorno era arrivata la lettera, da quanto tempo il rubino era in possesso del signor B.

Più la situazione veniva sviscerata più il cipiglio del signor O. si faceva profondo, finché, d’improvviso, decretò conclusa la giornata e augurò la buonanotte. 

Ci ritirammo nelle rispettive stanze e dormii un sonno turbolento, ma con un briciolo di speranza.

I giorni seguenti passarono senza eventi degni di nota, ad eccezione della costante curiosità della signorina A., che non faceva che ficcanasare in giro e socializzare con la servitù.

Quando arrivarono a mancare appena tre giorni alla scadenza, il signor O. comunicò che aveva terminato la gestazione del suo piano, e che rimaneva solamente da metterlo in atto. Con gran sollievo ne chiesi i dettagli, ma lui preferì aspettare il pranzo per discuterne.

Non credo di aver mai fissato con così tanto ardore la lancetta di un orologio come quella mattina, supplicandola di avanzare più velocemente. 

Forse, se avessi saputo cosa mi aspettava, avrei placato la mia apprensione.

Quando finalmente ci ritrovammo nuovamente tutti attorno al tavolo, e i piatti furono riempiti e i servitori allontanati, incalzai il signor O.

Lui annuì, e fece un gesto verso la sua assistente.

La signorina A. posò il cucchiaio, si passò delicatamente il tovagliolo sulle labbra, sorrise, e disse con disarmante naturalezza “stanotte, ruberemo il rubino di sangue dall’esposizione gemmologica”.

Io rimasi di stucco, mentre alla signorina E. cadde la posata di mano. 

Il signor O., impassibile, prese un sorso dal suo calice e rispose al mio sguardo inorridito con un cenno di assenso, come se la sua assistente avesse appena proposto una gita in barca.

Balbettai qualche protesta, che signor O. abbatté subito. “Non c’è altra soluzione. Il notaio è incorruttibile e anche trafugare il plico, ammesso che sia possibile farlo, la farebbe passare dalla parte del torto. Mentre un furto non la implicherà.”

Feci notare che ovviamente il furto mi avrebbe implicato, soprattutto dopo i miei carteggi con il signor B., e arrivai a un soffio dall’insultare il signor O.

Ma lui incassò impassibile le mie critiche. Disse che le trovava condivisibili e che tuttavia in quel momento avrei dovuto avere fiducia nel piano. Quindi scambiò uno sguardo con la sua assistente, e aggiunse che si era preso la libertà di avvisare alcuni uomini di fiducia perché si tenessero pronti, e mi disse i loro nomi. Li conoscevo, erano malviventi che pagavo per tenerli impegnati ed evitare che li assoldasse qualche concorrente. 

La signorina A. si intromise prima che potessi aprir bocca, e disse che non dovevo temere. Secondo lei avevo coperto bene le mie tracce, e solo grazie al fiuto del signor O. erano stati scovati.

Tentai qualche altra obiezione, ma la mia volontà si faceva sempre più flebile. Il signor O. aveva ragione, e anche se non l’avesse avuta, non rimaneva più tempo. Avevo scelto un calice, e avrei dovuto berlo fino alla sua amara e tragica fine. 

Gettai quindi la spugna, e mi misi ancora una volta a sua disposizione.

“È sufficiente che scriviate una lettera” disse la signorina A. “Per il signor B.”

Il signor O. borbottò qualcosa riguardo i malviventi e scomparve, mentre io mi dedicai alla stesura della missiva, sotto lo sguardo vigile della signorina A.

Non mi furono risparmiate critiche e correzioni, ma infine si dichiarò soddisfatta, e rilessi un’ultima volta il messaggio. 

In un tono a mio dire troppo poco supplichevole, invitavo il signor B. a recarsi nella mia tenuta dopo cena, per un sigaro e uno sherry e una discussione estremamente lucrativa. Ventilavo infatti la possibilità di cedere la mia intera attività, cosa che anche nel mio stato di scarsa lucidità suonava come assolutamente implausibile. 

La signorina A. fu però inamovibile, e non mi rimase che firmare la lettera e inviarla seduta stante.

Dopodiché iniziò una snervante attesa. Ero completamente in balia degli eventi, e le ore passarono dense come pece. Ore rese ancor più terribili e pesanti, o forse leggere e piacevoli, dall’interminabile sequela di domande che la signorina A. non cessava di pormi. Non riguardavano più la sventurata situazione, grazie al cielo, bensì vertevano ora sulla gemmologia. 

Mi chiese delle varietà principali di pietra, dei loro tagli e di mille altri piccoli dettagli la cui discussione è solitamente relegata ai circoli di esperti, dove molto si parla e ben poco si ascolta. La sua curiosità sembrava genuina, e si produsse perfino in alcune considerazioni per niente scontate. Fu quindi con sorpresa che udii i rintocchi che decretavano l’ora di cena.

Pasteggiammo rapidamente, e il signor O. comunicò che aveva terminato i preparativi. 

Lo seguimmo quindi nell’ingresso, per augurargli la buona fortuna. 

Mentre questi indossava il cappotto, mi domandai se coinvolgerlo fosse stata davvero una buona idea, o non avesse invece piantato un ulteriore chiodo nella mia bara.

All’improvviso, il signor O. si schiarì la voce, e riemersi dalle mie elucubrazioni.

Lui e la signorina A. mi osservavano vestiti di tutto punto, in attesa.

Gli augurai buona fortuna, e ribadii che se fossero stati catturati avrei fatto tutto il possibile per negare ogni nostro contatto, pur senza rancore. 

Il signor O. ringraziò, disse che non si aspettava nulla di meno e guardò l’orologio. Quindi mi ingiunse di muovermi.

Feci una smorfia confusa, ma prima che potessi dire alcunché, la signorina A. mi gettò addosso la mia redingote. “Si vesta e prenda chiavi e tutto, faremo tardi stanotte” disse.

Tanto energetiche furono quelle parole, o forse tanto profonda era la mia confusione, che obbedii senza fiatare. 

Riuscii però a trovare la forza di protestare un minimo, e domandare dove intendevano condurmi. “Ad acquisire un rubino” rise la signorina A., mentre il signor O. già guadagnava la porta.

La mia carrozza attendeva alla fine del viale, e il cocchiere si toccò il cappello al nostro indirizzo. La signorina A. lo salutò per nome e gli augurò una buona serata, il signor O. borbottò che sapeva cosa fare, e a me non rimase che seguirli in silenzio e chiudermi la portiera alle spalle.

La carrozza partì traballando, e il signor O. e la signorina A. controllarono i rispettivi orologi da taschino. Quindi si scambiarono uno sguardo e io realizzai che c’era molto all’opera che mai avrei potuto capire, e solo seguire.

Lei mi sorrise, completamente a suo agio, mentre lui si mise a scrutare nervosamente fuori dal finestrino. Quanto a me, potei solo girarmi i pollici, in attesa.

Quando la carrozza si fermò, la signorina A. si alzò subito. “Noi scendiamo qui” disse, e dal fatto che lo sguardo del signor O. rimaneva incollato al finestrino capii che quel noi includeva me.

Abbandonata la carrozza, la signorina A. salutò e raccomandò la puntualità al signor O. Questi rispose con un grugnito e ripartì.

Non mi ci volle più di un momento per orientarmi, e realizzare con orrore che non eravamo per nulla vicini all’esposizione gemmologica. “Non è il caso di arrivare in carrozza, non crede?” disse la signorina A. anticipando le mie domande. Quindi si avviò, facendo cenno di seguirla.

Mentre camminavamo a passo svelto, per quanto svelto possa consentire una gonna, il mio sospetto si fece certezza. Non ci stavamo dirigendo verso l’esposizione gemmologica.

Un dubbio mi colse come un fulmine a ciel sereno. E se il signor O. avesse architettato tutto questo per attirarmi in un posto isolato e derubarmi? E se la sua assistente fosse stata in realtà sua complice? 

Così com’era giunto però, il dubbio mi lasciò. 

Avrebbero avuto innumerevoli occasioni per derubarmi, soprattutto nel mio stato attuale, se tale fosse stato il loro intento. Per quanto non ne vedessi il senso quindi, il piano doveva avere una logica solida. O almeno così mi trovai a sperare.

Tanto era concentrata la mia mente su tale speranza, che quando la signorina A. si fermò andai avanti ancora per qualche passo. Tornai subito indietro, e con immensa sorpresa realizzai dove ci trovavamo.
La signorina A. attendeva, battendo il piede, accanto al cancello del mio laboratorio di gioielleria. 

“Non le voglio mettere fretta, ma non è saggio affidarsi troppo alla puntualità di un uomo” disse impaziente.

Con la volontà e perfino la forza di porre domande sempre più flebile, tirai fuori la chiave e aprii la porta. La signorina A. mi fece cenno di entrare, e mi seguì come fosse lei la proprietaria del mio stesso laboratorio.

La signorina A. mi chiese di condurla in una saletta poco distante dal mio ufficio, senza accendere alcuna lampada. Avrei potuto navigare il laboratorio ad occhi chiusi, e non mi fu difficile esaudire la richiesta. Una volta lì, vidi con orrore una rivoltella emergere dal suo corsetto.

“Sa sparare?” mi chiese come se si trattasse del mio gusto di marmellata preferito. Risposi ovviamente di no. Non avevo mai impugnato un’arma in vita mia e mai intendevo farlo. Lei alzò le spalle, mormorò qualcosa riguardo una giustizia poetica, e si sedette su un bancone, intimandomi di fare silenzio. Naturalmente impallidii, e lei rise, ma spiegò in un sussurro che non intendeva prendermi in ostaggio.

Attendemmo immobili per non so quanto tempo, fin quando qualcosa fece rumore nel mio ufficio. Lanciai un’occhiata interrogativa alla signorina A. ma lei scosse il capo. 

Controllò il suo orologio, contando con le labbra qualche minuto, quindi scese silenziosamente dal bancone e, rivoltella pugno, mi fece cenno di seguirla.

Ci appostammo a qualche metro dalla porta del mio ufficio, e mi pregò di accendere le lampade del corridoio. 

Poco dopo la porta si dischiuse, e la signorina A. puntò la rivoltella, intimando il mani in alto.

Il signor B. in persona si pietrificò, guardò con un misto di sorpresa e paura l’arma, e alzò due mani umide e tremanti.

“Non vorrà mica” balbettò. La signorina A. dischiuse le labbra in un sorriso terribilmente inquietante, ma non sparò, intimando invece al signor B. di muoversi e a me di seguirlo.

Tenendo sotto tiro sperabilmente solo il signor B., la signorina A. ci condusse fino all’ingresso e da lì, fuori nel giardinetto del laboratorio. 

Il signor B. guardò il cancello e capii che stava considerando la fuga. Stavo accarezzando lo stesso pensiero, quando lo schiocco secco e crepitante di uno sparo squarciò il silenzio della notte. Gridai, e anche il signor B. si fece sfuggire un gridolino ben poco virile. Ci tastammo, senza trovare sangue, per fortuna. 

“Hey!” esclamò la signorina A. e feci in tempo a sollevare su di lei lo sguardo per vedere che stava lanciando al signor B. la pistola ancora fumante. Questi esclamò sorpreso, ma fu abbastanza rapido di riflessi da afferrare l’arma. La guardò confuso per un istante, quindi il suo sguardo si indurì, e la puntò alternativamente contro di me e la signorina A. Io dal mio canto, smisi di cercare di capire quel che stava succedendo.

“Non ho idea di che gioco stiate giocando” soffiò il signor B. con ostilità. “Ma ora sta a voi alzare le mani.”

Io feci come detto, ma la signorina A. si limitò a schiudere nuovamente quel suo sorriso inquietante.

“Non scherzo” minacciò il signor B., al che la signorina A. rispose con un “Neanch’io” appena sussurrato.

Il signor B. strinse il calcio della rivoltella, e ne armò il cane. 

Sarebbe sicuramente finita in tragedia, se uno scalpiccio di stivali non fosse giunto dalla strada, e il signor O. non si fosse precipitato nel vialetto seguito a ruota da alcuni poliziotti.

Estrassero subito le loro armi e il signor O. domandò immediate spiegazioni.

“Io…” tentennò il signor B. e per qualche secondo parve completamente perso. Quindi si ricompose.

“Io sto solo cercando di riprendere possesso della mia proprietà” disse, abbassando la pistola e voltandosi verso gli agenti con un’espressione irritata. “Mi scuso per aver disturbato la quiete notturna, ma certe persone” disse, scoccandomi un’occhiata carica d’odio. “Capiscono solo la violenza. Il mio era un semplice colpo d’avvertimento, esploso in un momento di eccessiva passione, non lo nego. Sono stato derubato di un oggetto che ha per me un valore immenso, e ho agito in maniera impulsiva. Ora però ho riacquistato la mia lucidità. Procedete con l’arresto, prego.”

Si spostò, lasciando libera la strada ai due poliziotti, che rinfoderarono le loro armi, ma guardarono interrogativi il signor O.

“Siete armato, in una proprietà altrui, nel bel mezzo della notte. Ci andrei piano con le richieste d’arresto” disse questi. 

“Capisco quel che può sembrare, ma vi assicuro che…” iniziò a dire il signor B., ma il signor O. lo interruppe. “Questo lo vedremo. Andiamo a farci tutti una chiacchierata in stazione, eh?” disse facendo un gesto con la mano. “Avanti. Prima le signore.” 

Non starò a raccontarvi le ore passate nella stazione di polizia, e i numerosi interrogatori che dovetti sopportare. Riporterò però la tesi che sostenne il signor B. 

Poco dopo il tramonto, con l’ausilio di alcuni brutti ceffi avevo secondo lui trafugato il Rubino di Sangue dalla mostra gemmologica. Lui aveva scoperto il fatto, ed era corso al mio laboratorio, intercettandomi proprio mentre ne uscivo dopo aver nascosto il maltolto. 

Fortunatamente, il signor O. demolì completamente una simile menzogna.

Egli rivelò che fin dal primo pomeriggio i miei millantati bruti cantavano e bevevano alla salute di un facoltoso dandy di città, in una remota locanda. 

Testimoniò poi personalmente che avevo invitato il signor B. la stessa sera del furto e questi, dopo aver inizialmente negato di aver letto le mie lettere, rifiutò di produrre la missiva ancora sigillata.

L’unico fatto incontrovertibile rimase quindi il suo essere stato trovato in una proprietà altrui, e l’avermi minacciato con un’arma da fuoco.

Messo alle strette, iniziò a contraddirsi, mentre a me fu concesso di allontanarmi. Mentre il signor O. continuava l’interrogatorio, la signorina A. si offrì di riaccompagnarmi, e accettai.

Ma non mi condusse alla mia tenuta, bensì nuovamente al laboratorio. Quando mi chiese di aprire la porta, una domanda mi colpì fulminea. Come aveva fatto il signor B. a intrufolarsi?

“Ho lasciato la porta aperta” disse tranquillamente la signorina A. “altrimenti avrebbe sfondato una finestra. Facendo rumore prima del dovuto.”

Senza parole, la seguii fino al mio ufficio, dove mi indicò la scrivania.

“Io la sistemerei, non sia mai che faccia visita qualche gentiluomo in blu.”

Feci una smorfia, ma lei mi incitò, e senza troppa convinzione aprii i cassetti.

Dovetti appellarmi alle mie poche forze rimanenti, per non svenire nuovamente quando trovai, seppellito tra carte e documenti, il Rubino di Sangue.

Farfugliai qualcosa e la signorina A., accondiscendente, spiegò. 

“L’intento del signor B. non è mai stato ricattarla, ma distruggerla. Lei e la signorina E. insieme. Intendeva nascondere qui la gemma, e denunciarne il furto domattina, pretendendo una perquisizione.”

“Ma… perché?” gracchiai, e la signorina A. sospirò profondamente.

“Perché certi uomini traggono piacere dal rovinare vite. Il benessere altrui è per loro intollerabile. Era lampante… per il signor O. È stata una… sua idea l’attirare il ricattatore in una trappola. Ci dispiace per il disagio, ma volevamo fare… giustizia.”

Abbassai lo sguardo sul rubino. Una gemma davvero incredibile, senza eguali.

“E ora?” chiesi, e la signorina A. alzò le spalle.

“Ora nasconderà accuratamente quella pietra e tutto andrà avanti come al solito. Il signor O. penserà a perseguire il signor B. per i suoi reati. Adora torchiare i criminali, anche se non lo dice apertamente.”

“Ma…”

“A dopo i ma. Ora inizio ad avere sonno, e un vago mal di testa. Vorrei riposare. Della parcella discuteremo poi.”

Per l’ultima volta quella sera, ma per la prima col cuore leggero, esaudii la richiesta.

Non serve raccontare ulteriormente per dimostrare la nobiltà d’animo del signor O., che mai pretese pagamento, e sempre mantenne il segreto. Per anni custodii pietra e eventi ma ora, sento che è giunto il momento di liberarli. Ho vinto le mie ardue battaglie, e con Eileen al mio fianco non ne temo di nuove. Entrambi quindi vi affido, con la certezza che saprete utilizzarli al meglio.

Sinceramente vostra 

Lady Jane H. Matson, glittica imperiale

Qualche nota sull’autore

Alessandro studia informatica ed è forse per bilanciare la sua precisa rigorosità che si lascia affascinare dal mondo dell’immaginario e del fantastico. Cerca di tenere i piedi per terra e la testa fra le nuvole, impresa non facile con una statura tipicamente sarda. Sempre dalla Sardegna ha ereditato anche l’amore per il sole e per il ‘contàre’, che è qualcosa di più profondo del semplice ‘raccontare’.

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Redazione
Chiacchiere Letterarie è un progetto condiviso nato da due amiche che amano immergersi tra le pagine di un buon libro e sognare. È un’unione di idee e gusti differenti che trovano, in questo portale, il modo perfetto per coesistere e diffondersi.
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