Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

Pareti bianche: un racconto di Valentina Pucciarelli

Questo racconto fa parte della terza call di Chiacchiere d’Inchiostro, dedicata alla settimana più oscura e terrificante dell’anno.

Il progetto è pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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Le pareti bianche della stanza la soffocavano, togliendole il respiro. Odiava quella stanza, odiava quel bianco sgargiante che l’accecava, odiava il freddo pavimento di pietra su cui era seduta.

Lasciò vagare lo sguardo lungo le quattro pareti, per poi fissarlo in un angolo, dove una figura rannicchiata costituiva l’unica nota di colore in quei pochi metri quadrati. Si schiarì piano la voce, sperando che questo bastasse a svegliare suo fratello, ma la figura non si mosse.

«Layon!» gridò quindi, ottenendo l’effetto sperato. Il fagotto di carne e abiti si animò, volgendo la testa verso la sorella.

«Buongiorno, Maryl.» 

Lei inarcò un sopracciglio, squadrandolo con attenzione mentre lui si alzava in piedi e la raggiungeva. «È giorno?» domandò con voce dubbiosa.

«Ho immaginato lo fosse.» Layon si sistemò accanto a lei, le gambe robuste incrociate a sorreggere il corpo, le mani dietro la testa, così da formare un rudimentale cuscino con cui appoggiarsi alla candida parete.

«Già, hai immaginato» ridacchiò lei. «Hai sempre avuto una fervida immaginazione, giusto?» gli domandò, osservandolo con un grande sorriso.

«Se lo dici tu…» ribatté lui mostrando i denti, bianchi come la stanza.

Maryl sbuffò, guardandosi attorno. «Per quanto tempo dovrò restare in ospedale?» gli chiese.

«Finché non guarirai.»

«Ma tu continuerai a venirmi a trovare, giusto?»

Il fratello scosse le spalle con noncuranza, regalandole un altro sorriso. «Finché lo vorrai.»

Maryl osservò i suoi corti capelli ricci che gli accarezzavano il collo. Amava carezzarli: sembravano i capelli di una bambola, soffici come un dorato campo di cotone. 

Ad un tratto, quasi risvegliata da un pensiero improvviso, Maryl scattò in piedi. «Mio padre è ricco e potente, non possono tenermi qui!»

Layon inarcò un sopracciglio, osservando la ragazza. «Nessuno ti tiene qui… vogliono solo aiutarti.»

Ricevette solo un’occhiata sferzante in risposta, seguita da un lieve borbottio. «Nostro padre però non viene mai a trovarmi…» Tornò a sedersi, sbuffando appena.

«È solo troppo occupato per farlo» ribatté lui, alzando appena le spalle con noncuranza.

«Ma sono sua figlia… non dovrebbe lasciarmi sola qui, in mezzo a tutti questi dottori… ho solo quindici anni…»

Il fratello non rispose, limitandosi a fissare la porta, i muscoli del collo tesi, come se avesse sentito qualcosa. «Sta arrivando qualcuno.»

«Di sicuro un dottore o un’infermiera» sbuffò Maryl.

«Probabile.»

Layon si alzò in piedi, allontanandosi di qualche passo dalla sorella. La porta della stanza si aprì e un medico sorridente fece la sua comparsa. «Allora, come ti senti oggi, Maryl?» chiese, affabile.

«Bene, dottore… posso andarmene?» domandò lei mettendo il broncio e incrociando le braccia.

«Ancora no, mi dispiace» rispose lui. Dalla sua espressione si sarebbe potuto pensare fosse sincero, ma Maryl non lo pensava. Si limitò a lanciare un’occhiata al fratello, che le rispose con un sorriso.

«Avanti dottore, mia sorella sta bene» ribatté lui. Maryl annuì con convinzione, osservando il vecchio, impegnato a scrivere su una cartellina.

«Mio fratello ha ragione» si lamentò. “E lui è grande e grosso” avrebbe voluto aggiungere. “Se volesse potrebbe portarmi via da qui… solo che è tanto buono.”

«Ha sicuramente ragione» ribatté il dottore con un grande sorriso. Scrisse ancora qualcosa su quella sua dannata cartella e poi si diresse verso l’uscita. Mosse un passo fuori dalla porta, ma poi si fermò, tornando a voltarsi.

«Maryl, scusa, mi servono alcuni dati per completare la scheda… quanti anni hai?»

«Quindici!» rispose lei, frustrata. Ogni giorno le facevano domande stupide: quanti anni aveva, come si chiamavano i suoi genitori, dove abitavano, quanti anni avevano; come si chiamava suo fratello, quanti anni aveva lui… credevano forse che lei fosse idiota?

Quando il medico fu uscito, Maryl si avvicinò al fratello, appoggiando la testa contro la sua spalla e inalando il suo odore.

«Perché mi fanno tutte queste domande?» gli chiese. Lui si limitò a scuotere le spalle, cingendole il corpo con le braccia.

«Hai battuto la testa, forse vogliono controllare tu non abbia vuoti di memoria.» La sua voce però suonava dubbiosa, e questo a Maryl non sfuggì.

«Layon, tu sai perché sono qui?» gli chiese, ma non ottenne da lui nessuna risposta, solo uno sguardo freddo e spento.

«Hai detto che ho battuto la testa… dimmi di più.»

«Lo sai» rispose lui, sciogliendo l’abbraccio e allontanandosi, dandole le spalle. Maryl lo osservò, incuriosita.

«No, non lo so. I dottori continuano a parlare di un incidente, senza dirmi niente di più, non ricordo cos’è successo. Non ricordavo nemmeno di aver battuto la testa, me l’hai detto ora tu!»

Layon scosse la testa, tornando a voltarsi verso la sorella, il volto improvvisamente pallido. Aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma poi la richiuse. «È meglio se vai a dormire, Maryl.» La sua voce suonava stanca.

«Se prima era giorno, adesso non può essere già notte.»

«Ho solo immaginato che fosse giorno. Non lo so. Vai a dormire, Maryl.»

Con uno sbuffò la ragazza si voltò, dirigendosi verso un piccolo letto addossato alla parete, le lenzuola bianche come il resto della stanza. Si sdraiò e chiuse gli occhi. Era certa di aver abbassato le palpebre solo per qualche secondo, ma i suoi sensi dovevano averle giocato uno scherzetto: quando rimise a fuoco la stanza, infatti, suo fratello se n’era andato. Evidentemente si era addormentata. Sospirò appena e si rannicchiò di più dentro le coperte, lasciandosi scivolare nel sonno.

Non fu un riposo tranquillo, gli incubi vennero a visitarla più volte: erano frammentati, senza senso, e svanivano ogni volta al risveglio, perdendosi tra le ombre. Alla fine, Maryl si mise a sedere in un bagno di sudore. Non ricordava quasi niente, solo alcune immagini guizzavano nella sua mente: una culla, delle grida e sangue… tanto sangue.

Quanto tempo aveva dormito? Si guardò intorno alla ricerca del fratello, ma di lui non c’era traccia. Sospirò appena, tornando a sdraiarsi, gli occhi sgranati fissi sul soffitto. Non avrebbe più preso sonno, non poteva: aveva paura di quegli incubi. Li aveva già fatti, in passato? Qualcosa le diceva di sì, ma non riusciva a ricordarlo.

Le sembrò di sentire un rumore, e subito si voltò. Suo fratello era lì, in piedi accanto a lei. Maryl sorrise, ma il giovane non contraccambiò. «Hai ricordato?» le domandò in tono cupo.

Maryl scosse appena la testa, alzandosi in piedi. «Sei uno zuccone…» disse con un sospiro. «Dimmelo tu cos’è successo, così la finiamo.»

La risposta di lui la spiazzò. «Se lo so io, allora lo sai anche tu.»

Sbatté gli occhi un paio di volte, squadrandolo attentamente. «Piantala di fare lo sciocco e dimmi cos’è successo» tentò ancora una volta. «Forse così i dottori mi lasceranno tornare a casa.»

Suo fratello la spaventava, in quel momento. I capelli spettinati, il volto pallido, gli occhi tristi…

«Quanti anni hai?» chiese, sedendosi sul letto, prima occupato da lei.

Lei prese posto al suo fianco, la rabbia evidente negli occhi. «Mi prendi in giro? Quindici! Ne avevo quindici quando è arrivato il medico, non penso di aver cambiato età nel frattempo!» Era frustrata da tutte quelle domande prive di logica.

Il fratello le afferrò una mano, avvicinandosi di più a lei. Maryl sorrise, era piacevole sentire il suo calore su di sé. «Maryl, ti ricordi quando sono venuto al mondo?»

Un frammento di ricordo colpì la mente della giovane, che chiuse gli occhi per afferrarlo. «Sì» rispose quindi, mentre il ricordo diventava più nitido. «Nostro padre mi portò a vederti, eri insieme ad altri neonati, fasciato dentro una tutina gialla. Erano tutti silenziosi, ma tu no, tu urlavi a pieni polmoni.» Una lieve nota di nostalgia traspariva dalle sue parole. 

Layon annuì appena, continuando a tenere la mano della sorella tra le sue.

«Sai quanti anni ho io?»

“Di nuovo domande stupide… diamine, certo che so quanti anni ha mio fratello!” «Venticinque» rispose stizzita, osservandolo con un lampo di sfida nello sguardo. Gli occhi di Layon di solito brillavano della stessa luce, ma non stavolta. Ora sembrarono diventare ancora più tristi.

«Dieci più di te? Non è possibile, lo sai, vero?»

Maryl spalancò gli occhi, stupita. Layon aveva ragione, naturalmente: come poteva ricordarsi della sua nascita, se lui era nato dieci anni prima? «M-mi sarò sbagliata…» balbettò. «Forse ricordavo la nascita di un altro bambino, magari un vicino…» “Che male…” In quel momento avrebbe avuto bisogno di un’aspirina, la testa le stava scoppiando.

«No… era la mia…»

«Ma non è possibile» ringhiò lei.

«Forse ti sbagli sulla mia età…» rispose lui con voce morbida.

Lei tolse immediatamente la sua mano da quelle di lui, guardandolo con severità. «Non dire sciocchezze, tu hai venticinque anni!»

«E tu?»

«Quindici!» urlò a pieni polmoni, mentre iniziava a piangere. Abbassò lo sguardo, osservando la mano che prima era tenuta da Layon. Sgranò gli occhi, arrestando per un secondo anche il flusso delle lacrime. “Non è possibile… la mia mano…”

Quella non era la sua mano, non poteva esserlo. Era pallida, più grande di come la ricordava, le dirà erano più tozze e tremava leggermente. Sentì la stretta di suo fratello sulle spalle, e improvvisamente provò l’istinto di mettersi a urlare e fuggire. Ma fuggire dove, se i medici non aprivano quella porta? “Layon però è entrato…”

«Dimmi come sei entrato!» gli intimò, allontanandosi bruscamente da lui. «Voglio andarmene da qui!»

«Non sono entrato» rispose lui con un sospiro. «Non sono mai uscito.»

Lei lo fissò come se fosse improvvisamente impazzito. Certo che era uscito! Era sicura di non averlo visto nella stanza, e non c’era alcun luogo dove lui potesse nascondersi. La stava prendendo in giro, non c’era altra spiegazione. Era uno scherzo crudele. «Smettila…» disse, ricominciando a piangere.

Layon si alzò e la raggiunse, tornando ad afferrarle le spalle e guardandola negli occhi.

«Sono venticinque anni che sei qui» le disse in un sussurro. Maryl sentì una sferzata d’aria gelida sul volto, anche se in quella stanza non esistevano finestre da cui potesse entrare il vento.

Si sentiva frustrata, istintivamente portò una mano sul capo, e fu come una nuova fitta di dolore. Al posto dei morbidi capelli lisci e lucenti che l’avevano sempre accompagnata, adesso la sua mano toccava radi capelli stopposi e viscidi. Che cosa le stava succedendo?

Chiuse gli occhi, mentre la stretta del fratello si faceva sempre più debole. E improvvisamente ricordò…

Le grida di suo fratello nella culla, il sangue sulle pareti, il pianto dei suoi genitori, il coltello tra le sue mani, e il silenzio che ne era seguito. Suo fratello non urlava più. Non poteva più farlo, non poteva più disturbarla, non l’avrebbe più tenuta sveglia la notte. Voleva solo quello: un po’ di silenzio. Era da biasimare per questo?

«Quanti anni ho?» chiese in un sussurro, riaprendo gli occhi.

«Quaranta.»

Maryl non disse altro, le sue gambe erano diventate improvvisamente deboli, e lei si lasciò cadere al suolo, lo sguardo fisso su di lui.

«In effetti, non sono un tipo pieno di immaginazione» le disse, con un lieve sorriso triste. «Forse lo sarei stato.»

Maryl lo osservò. Si soffermò sul volto delicato e gentile, sui muscoli che premevano sotto la stoffa della maglietta; sui soffici capelli dorati – ma tutti in famiglia li avevano neri – sugli occhi color del mare che la osservavano. Qualche suo parente aveva mai avuto gli occhi azzurri?

«Mi dispiace…» disse soltanto. Lo disse così piano che nemmeno lei stessa udì la sua voce, ma suo fratello sorrise.

Maryl abbassò lo sguardo al suolo, sentendosi improvvisamente stanca, vecchia. Vuota.

Dai suoi occhi non sgorgavano più lacrime, il suo viso era asciutto. Lei vi portò una mano, scoprendo rughe che prima non aveva notato.

Levò di nuovo lo sguardo, solo per accorgersi che suo fratello non c’era più. Non ci sarebbe mai più stato. Con un gemito, si rannicchiò a terra.

Le pareti bianche della stanza la soffocavano, togliendole il respiro. Odiava quella stanza, odiava quel bianco sgargiante che la accecava, odiava il freddo pavimento di pietra su cui era sdraiata.

Editing a cura di Marco Garinei

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Qualche nota sull’autrice

Valentina Pucciarelli, classe 91, dopo il diploma scientifico, ha deciso di cimentarsi con il mondo della narrativa e si è così laureata in Italianistica all’Università di Pisa, per poi frequentare il corso “Dove nascono le storie” tenuto dalla Scuola Holden di Torino.

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