Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

Tanto, troppo tempo: un racconto di L.E.A. Serra

Questo racconto è inserito nella terza call di Chiacchiere d’Inchiostro, dedicata alla settimana più oscura e terrificante dell’anno. Ma è anche un racconto della nostra redazione, scritto da uno dei nostri più stretti collaboratori.

Il progetto è pensato per dare spazio e visibilità alle voci degli autori emergenti. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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Non riesco a crederci, è come se stessi sognando. Eppure sento ancora il suo profumo, fruttato e con note di gelsomino, quindi è successo davvero.

Sono stato scelto, sono stato invitato.

Ed è passato tanto, troppo tempo dall’ultima volta che sono stato invitato da qualche parte. Dall’ultima volta che una ragazza mi ha detto qualcosa di diverso da: «Scusa, non ti avevo visto.» 

Becky poi, non è una ragazza qualsiasi.

Passo le quattro ore di lezione – Becky mi ha teso un agguato all’uscita della mensa – senza prestare particolarmente attenzione. Non che il vecchio Francis dica nulla di particolarmente interessante, comunque. Non faccio nemmeno caso alla pioggerella che inizia a cadere mentre aspetto l’autobus.

È venerdì, quindi scendo alla settima fermata. Corro sotto una pioggia torrenziale e m’infilo al Rotten Log. Qualche sguardo si posa su di me, sui miei capelli corvini. Corti, fradici e troppo sottili, mi si incollano alla fronte e danno l’impressione che mi sia caduto un barattolo di pece in testa. Come in effetti accadde molto tempo fa, ma non per caso. 

Mi riconoscono, o più che me, riconoscono gli abiti di uno studente, e ritornano ai loro boccali. Mi siedo al solito tavolino, vuoto non perché conosco il barista – nessuno qui si ricorda il mio nome – ma perché posto in un angolo buio e umido della sala, lontano dal camino. Ordino un idromele, il barista mi consegna anche una piccola ciotola di croccantini pericolosamente somiglianti a quelli per cani. Hanno un gusto diverso però, e ne ho sgranocchiato metà ciotola quando Frank si degna di arrivare.

Ha gli occhi rossi e scavati, il passo incerto, lo sguardo vacuo. Deve aver avuto lezione con l’Atwood. Ogni volta che lo vedo così ricordo perché tanta gente cambia corso.

Passa al bancone, recupera un enorme boccale e quasi si accascia sul tavolo.

«Giornata difficile?» Spero che il suo cervello non sia già una poltiglia.

Grugnisce, con la fronte sul piano di noce. «Non puoi capire… cose dell’altro mondo.»

Posso capire, eccome. Rialza la testa, prende un gran sorso di birra e rinasce. «Però, è venerdì! Gaudemus!»

È questa sua resilienza, questa capacità di ignorare qualsiasi cosa finché ha della birra a portata, che ha fatto di Frank un mio amico. Il mio unico amico.

Chiacchieriamo del più e del meno, anche se principalmente è lui che racconta. 

Quando finisce, comunico la mia notizia bomba. La sua reazione però non è quella di stupore e invidia che mi aspettavo. Anzi, si rabbuia, e gli ci vuole un altro sorso della sua terza pinta perché si decida a parlare.

«Sei sicuro che sia una buona idea?» chiede. Pesa attentamente ogni parola.

«Non vedo perché non dovrebbe esserlo.» 

Sembra vagamente imbarazzato. «Ecco… sai che reputazione hanno Becky e il suo gruppetto…»

Certo che lo so. Si fanno chiamare le “Profound Priestesses”, benché ci siano anche uomini tra loro, e sono oggetto di voci e leggende. Nulla di realmente dimostrato. L’unica cosa certa è che sono le sacerdotesse ad attirare gli sguardi di tutta l’università, studenti e professori allo stesso modo.

Il mio silenzio, ma soprattutto la mia occhiataccia, non sono risposte sufficienti per Frank, che insiste.

«Pindertown…»

Sbuffo scocciato. Non pensavo che Frank fosse di quelli. 

Anni fa, un cacciatore trovò i resti di uno studente, un certo E. Pindertown, in un bosco. Caso volle che in una villa a venti chilometri di distanza si stesse svolgendo in quei giorni un festino privato delle sacerdotesse. Le malelingue saltarono subito alle conclusioni. Poco importava la distanza e il fatto che l’autopsia decretò come causa della morte lo sfinimento. Anche se la faccenda venne messa a tacere – tra le sacerdotesse ci sono figlie e figli di senatori e industriali – le voci non vennero mai estirpate completamente, e la leggenda del massacro ritualistico di Eddie rimase viva nelle menti più impressionabili. Come evidentemente in quella di Frank. 

«Lascia perdere le leggende, sono stato invitato! Dalla gran sacerdotessa in persona! Io!»

Frank non condivide il mio entusiasmo. Probabilmente perché lui non è stato invitato. Il che è strano, ma dimostra quanto esclusivo sia come circolo.

Il resto della serata passa lentamente. Beviamo i nostri drink in silenzio. Me ne vado prima del solito, e Frank si aggrega a un gruppetto di sconosciuti che giocano a scacchi.

I giorni passano a tratti rapidissimi, a tratti interminabili. Le ore sembrano minuti quando incrocio Becky, anche se non ricambia mai i miei sguardi, e fa come se non esistessi. Sento che mi osservano in modo diverso però, lei e le altre sacerdotesse, ne sono sicuro.

Il portiere del dormitorio mi avvisa che hanno lasciato un messaggio per me. Mi sorprende. Non ricevo mai lettere, né pacchi. 

Infatti è un biglietto di Frank. Dice che non riesce a trovarmi ma deve parlarmi, che mi aspetterà al Log.

Non è venerdì, ma domani è il gran giorno, quindi il pub si merita una visita. 

Trovo Frank al solito tavolo, con la solita birra, ma senza salatini.

Ha una faccia scura, evita il mio sguardo. Svuota il boccale prima di parlare, e lo fa comunque con evidente disagio.

«Ho ripensato a quello che mi hai detto l’altro giorno. Hai detto che il party è questa domenica, giusto?» Non dovrebbe dirlo così ad alta voce, ma in effetti non gli ho ripetuto l’esortazione alla segretezza sussurratami da Becky. E in questo locale nessuno ascolta, in ogni caso.

«Sì, perché?»

«Che giorno è?»

Deve aver passato tutta la giornata in biblioteca. Lo assecondo comunque.

«Trentuno ottobre.»

Rimane in silenzio, aspettandosi non so quale risposta.

«E non ti puzza?»

Faccio spallucce. Frank sospira. 

«Non voglio suonare… come immagino io suoni. Ma considera questo: le sacerdotesse ti hanno invitato. A una festa segreta e privata. Il trentuno ottobre notte.»

«E quindi?»

«Ecco… Non sei esattamente la prima persona che uno si aspetta invitino.»

Lo dice tutto d’un fiato, come se se ne vergognasse. E fa bene, perché rivela le sue carte.

A quanto pare è come gli altri. Pensa che sia impossibile che le sacerdotesse possano mai invitare quello che tutti conoscono solo come “lo sfigo”. Quello che una volta al mese si ritrova i croccantini per animali nelle ciotole da cocktail. Glielo dico, e lui reagisce nella maniera più prevedibile: dicendo che l’ho frainteso, che non vuol dire quello.

«Voglio solo evitare che ti tirino un brutto scherzo, tutto qui» dice. Una scusa poco credibile, probabilmente nata dall’invidia, perché per quanto abbia un notevole successo sociale, non è mai entrato nelle PP. 

Mi alzo, lui ora sembra impaurito. 

«Dico davvero, non andarci.»

Non posso che ridere mentre abbandono il locale.

C’è freddo ma il cielo è sereno, una perfetta domenica d’autunno. Incrocio Becky all’entrata della biblioteca, sempre aperta e accogliente. Mi fa l’occhiolino, sento il suo respiro sul viso, il suo tocco sul fianco. Si allontana subito, come se non esistessi. Ma nella tasca del mio cappotto c’è un biglietto. C’è scritto: “parcheggio abbandonato – 19:30”, e poco sotto: “non dirlo a nessuno”. Un sollecito superfluo. Passo la giornata distrattamente, tanto da versare il calamaio. Di ritorno dal bagno, la manica bagnata e ancora macchiata, scorgo Frank all’entrata della biblioteca. Sta chiedendo trafelato a due studenti se hanno visto lo sfigo. Rispondono negativamente. Frank impreca e corre via. Lo evito con cura per le ore seguenti. 

Finalmente scende il sole e alle sette e venti sono al parcheggio. Non c’è nessuno ad aspettarmi, quindi resto in attesa.  

Si fanno le otto, poi le otto e mezza. Arriva un’auto, i fari mandano lampi verso gli alberi scuri quando prende una delle tante buche. Si ferma a qualche metro da me, fari e motore rimangono accesi.

Dall’alone luminoso emerge una figura. È Becky, ed è bellissima. Indossa un abito la cui scollatura parte dalle spalle e arriva all’ombelico, e anche più giù. Sopra porta una tunica aperta, di un rosso pieno e profondo. Sorride, un sorriso ampio e brillante, ma l’ombra del cappuccio nasconde il viso dal naso in su.

Mi porge qualcosa di scuro. È di velluto. Un sacco.

Non serve che mi dica nulla. Tolgo gli occhiali, li ripiego delicatamente, li metto nel taschino. Quindi mi metto il sacco in testa.

Una mano, morbida e fresca, prende la mia. Mi guida verso il borbottare sommesso del motore. L’auto profuma di cuoio, di whiskey e tabacco. Ma anche di fiori e gelsomino. Il sedile è ampio, comodo. Una volta chiusa la portiera l’abitacolo è davvero silenzioso, nonostante la cilindrata sia davvero grossa, a giudicare dall’accelerazione.

«Come mai non dice niente?» chiede una voce. È forte e sicura di sé, Trasuda una sicurezza atletica come le promesse la voce di un politico. «Gli hai imposto il silenzio?»

«No» risponde Becky, la sua voce inconfondibile. «È solo silenzioso.»

Sì, sono silenzioso. Anche perché non saprei cosa dire.

Non so quanto dura il viaggio. Ci sono parecchie curve però, e saliamo di altitudine. Quando la portiera viene aperta entra un’aria fredda, che sa di resina e muschio. Di nuovo Becky prende la mia mano. Camminiamo sull’erba, o forse è uno strato di aghi di pino, per parecchio tempo. Sento del calore sulla pelle, vengo fatto sedere su un ceppo. 

Becky lascia la mia mano, scompare dal mio mondo. Attendo nell’oscurità per non so quanto tempo, quindi sento frusciare intorno a me. Qualcuno ride, qualcuno inspira sorpreso. Mi tolgono il sacco dal viso. Rimango abbagliato da un grande falò. Quando i miei occhi si abituano, vedo che è circondato da ceppi come il mio. Ci sono parecchie altre persone. Ragazzi e ragazze. Fanno tutti parte delle PP, alcuni hanno perfino delle felpe con le iniziali. Chiacchierano e aprono casse di bicchieri e bottiglie di vino. Qualcuno sistema una griglia sulle braci.

«Quindi tu devi essere lo sfigo» dice una ragazza. Non lo dice col solito tono canzonatorio però, ma con la curiosità che ho udito spesso tra amici. Sembra genuinamente interessata. Annuisco.

«Beh, io sono Emma.» Mi tende un bicchiere di aranciata. Beviamo, mi guarda.

«Ma come ti chiami, veramente intendo?»

Sorrido. «Non potresti pronunciarlo-»

«Ohh, ungherese!» Un’altra ragazza s’intromette. Barcolla un po’, ma riesce a sedersi sulle ginocchia dell’amica. «Un giorno è venuto un… un diplomatico, ungherese a casa. Il suo biglietto da visita diceva wro… wurlurowl… zkzl… Una roba impossibile. Piena di l e z e lineette…»

Non ho mai capito perché pensano sempre all’Ungheria. Come se l’Islanda non producesse nomi altrettanto complicati. O l’India, o gli Inuit.

«E di cosa ti occupi?»

«Fa storia, archeologia» dice qualcuno prima che possa rispondere. Non mi rimane che annuire ancora una volta.

«Ohh, sono stata in Egitto. C’è un sacco di caldo. E di sabbia. Brutto posto.»

È il mio campo, non riesco a trattenermi. Gli spiego che l’archeologia non è confinata all’Egitto. Fanno domande, rispondo. Essere al centro dell’attenzione è inebriante. Arriviamo a parlare di siti archeologici locali, e il discorso finisce su Selik-ki-lethe. 

Spiego che è un antichissimo luogo sacro, dove sono stati trovati – il mio stesso professore fu direttore degli scavi – resti umani antichissimi, millenni prima di Colombo. Sacrifici umani, cannibalismo.

Mi lasciano parlare e io continuo. Vado avanti per qualche tempo. Poi mi ricordo improvvisamente di Becky. Chiedo dove sia, mi rispondono che arriverà. Mi vengono offerte verdure grigliate, aranciata, niente vino.

Mi chiedono se conosco la storia di Eddie Pindertown. Dev’essere un test, e cambio discorso.

«Sai cos’è l’ATP?» chiede qualcuno. Faccio cenno di no. Mi spiegano che è un composto presente nei muscoli, e che ha a che fare con la loro contrazione, e il rigor mortis. 

«Gli antichi facevano correre una sorta di triathlon, corsa, nuoto e scalata, ai prescelti» dice la ragazza dell’aranciata. «Solo quando erano completamente esausti li sacrificavano. Perché così le loro riserve di ATP erano finite e i muscoli rimanevano morbidi. Teneri.»

Sbaglia, ma sto zitto. Sento molti sguardi su di me.

«Era un onore essere scelti, sai?» continua. Sorride, i denti candidi e perfetti.

Qualcuno batte su un bongo. Anzi qualcosa di più grosso, dai battiti profondi, lenti. Irregolari.

Lo scroscio di un sonaglio riempie le pause, ma non tutte. L’attenzione scivola da me verso un punto imprecisato, oltre il circolo illuminato dal falò. Due figure emergono dal buio. Quel poco che hanno addosso sembra cuoio, ma di uno strano colore. Il ragazzo porta un tamburo alla cintola. Lo batte con quello che è chiaramente un osso, lungo e sottile. La ragazza ha un bastone carico di cilindretti penzolanti da cordicelle intrecciate. Battendolo sul terreno produce il rumore come di sonaglio. Nessuno li tocca, nessuno dice nulla. Si allontanano, percorrendo in direzioni opposte il limite della penombra, continuando a battere il loro lento ritmo.

Quindi due figure più grosse appaiono. Cavalli. Uno grigio, uno nero. Avanzano lentamente, regalmente. Becky cavalca il nero, uno sconosciuto l’altro. Mi faccio avanti, qualcuno di alto e muscoloso mi si para davanti. Scuote la testa. Arretro, e così fa lui. Becky e l’altro cavaliere mi guardano. Sorridono.

«Conosci le regole?» chiede il cavaliere. Faccio cenno di no. Non so cosa fare. Sono circondato da forse una trentina di altre persone. Il cavaliere fa spallucce.

«Devi correre» dice Becky, la sua voce come il miele. «O anche nasconderti. Lì c’è un boschetto bello fitto.» Prendo nota della direzione. «Puoi fare quel che vuoi, in verità. Io consiglio di nasconderti, muoverti lentamente, in silenzio… Ma sono di parte.»

Il cavaliere sbuffa. «Bah» borbotta. Qualcosa luccica tra le sue mani. È la canna di un fucile. L’ottone delle cartucce lampeggia nella luce rossastra del falò. L’otturatore schiocca appena. 

«Non fare caso alla sua irruenza» dice Becky. «Anzi, sfruttala. I suoi metodi sono veementi, rozzi. Puoi sentirlo a un miglio, se fai attenzione. Io invece… preferisco rimanere sul classico.»

Un lembo di cuoio rivela una faretra piena.

«Da una mezzanotte all’altra» continua. «A dire il vero abbiamo sforato, ma siamo sportivi, ti diamo comunque una ventina di minuti di vantaggio, a partire da… ora.»

Mi guardo attorno. Tutti mi osservano, quasi tutti sorridono. Continuano a bere e mangiare. Verdure multicolori scoppiettano sulla griglia rovente, lontana appena qualche metro.

Un terribile boato mi assorda. Qualcosa di caldo mi cola sulla guancia. Porto la mano all’orecchio. Ne manca un pezzetto. 

«Mi sa proprio che vinco io, stavolta» ride il cavaliere, occhieggiando da sopra il fucile.

«Avevo detto che saremmo stati sportivi» protesta Becky, non troppo convinta. Quindi si rivolge a me. «E ora, corri.»

Non me lo faccio ripetere.

Con un salto raggiungo la griglia, la brandisco. Verdure arrosto riempiono l’aria, ma nessuno tenta di ostacolarmi. Abbandono l’arma, solo un intralcio contro un fucile, mi lancio verso il boschetto. Salto un ceppo, getto un’occhiata alle mie spalle, i cavalli sono fermi. 

Inciampo su qualcosa. Sento rumore di vetro che s’infrange, qualcosa schiocca nella mia caviglia. Il terreno mi viene incontro come un lampo. C’è una pietra muschiosa.

Riapro gli occhi, ma non rimango abbagliato. La stanza è illuminata da torce e bracieri. Le pareti sono di pietra, mattoni di varie epoche riempiono le spaccature. Un rivoletto rosso mi scivola sull’occhio. Faccio per pulirmi, ma la mano non si muove. Polsi e caviglie sono stretti da manette di cuoio e ferro, agganciate a una struttura più grande. Devo sembrare un uomo vitruviano.

Un panno cala sul mio occhio. Sento l’aria muoversi su tutto il mio corpo. Mi hanno tolto i vestiti. Peggio per loro.

Cerco di dare una testata, incontro qualcosa di morbido. Un respiro spezzato. Qualcosa di scuro mi cala sul capo.

«Poco elegante» dice una voce. Il cavaliere. Sento il freddo del metallo sul petto. Quindi una stretta. Grido, il mio corpo si tende. La presa viene allentata dopo appena un secondo. 

«Già, poco elegante» dice la voce di Becky, leggermente nasale. «E poco soddisfacente, anche. Inciampare su una cassa di vino… Eddie era durato fino a sera…»

«Perché?» mormoro, tremulo.

«Non ti hanno spiegato dell’ATP?» risponde. Il cavaliere prosegue.

«Parliamoci chiaro. Con la caviglia in quello stato non fai un metro, figuriamoci correre. Però ci sono altri modi…» Le pinze strizzano e girano di nuovo, più a lungo. «Sarà una lunga giornata.»

Sento l’anticipazione nella sua voce. La violenza che emana è come una forza fisica. C’è del sangue e del muco nella mia bocca. Lo sputo. Un rotolo di tessuto schifoso mi viene spinto tra le labbra.

«A dire il vero, Baobhan aveva anche altre idee, ma dopo quello scherzetto…»

«Non è niente» dice Becky. «Anzi, vai a chiamare le altre. Ci sarà da divertirsi.»

«Bah, contenta tu» borbotta il cavaliere dopo qualche momento. Sento il respiro di Becky sulla pelle. «Come ho fatto a non notarti prima?» Il suo sussurrare è terribilmente sensuale. «Niente famiglia, niente amici… Niente di niente…» Poi non dice più nulla.

Rumore di passi, il cigolio dei cardini, lo sferragliare di un passante. Tanti respiri riempiono la sala.

«Possiamo iniziare, quindi?» chiede il cavaliere. «Sì» decreta Becky. «Aspettate» dice sentendo il mio mugugno. «Vuoi dire qualcosa?» Il rotolo viene rimosso.

«Gli antichi…» È difficile parlare col fiatone, ma non posso impedirmelo. È il mio campo, dopotutto. « …Non correvano per stancarsi, ma per competere. La competizione è un’emozione potente. Primordiale. Non è l’unica.»

Traggo un profondo respiro, è parecchio difficile. «Ne sento tante altre tra queste mura. Ma ne manca una. È difficile da ottenere, ma amplifica e insaporisce le altre.»

E ora tocca a loro trattenere il respiro. I loro occhi si ingrandiscono, le loro bocche si spalancano. Le loro grida di sorpresa e terrore fanno da bordone agli strappi della carne, mentre mi libero finalmente da questo inutile corpo e ritorno alla mia vera forma. L’aria è carica di sangue, sudore, eccitazione e paura. È un profumo fantastico.

I giusti riti, i giusti tempi, le giuste emozioni sono difficili da ottenere, quasi impossibili.

Ed è passato davvero tanto, troppo tempo dall’ultima volta che sono stato invitato in questo luogo.

Editing a cura di Marco Garinei

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Qualche nota sull’autore

L. E. A. è una persona molto riservata, preferisce parlare di concetti astratti e mondi fantastici più che di sé, e tende a lanciarsi in imprese che alcuni direbbero discutibili (come rileggere per l’ennesima volta le opere di Tolkien, Silmarillion compreso). È un orgoglioso oristanese.

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