Chiacchiere d'Inchiostro, Racconti, Scrittura

Cento giorni di coprifuoco: un racconto di Alessandro Chiusi

Questo racconto fa parte della prima call di Chiacchiere d’Inchiostro, un progetto pensato per dare spazio e visibilità alle vostre voci. Per sapere come funziona e come partecipare al progetto, vi rimandiamo all’articolo di presentazione.

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Parecchi giorni dopo, di fronte al plotone d’esecuzione, il caposquadra Javier Malanoche si sarebbe ricordato di quella umida mattina in cui aveva aperto il barattolo dello zucchero, e l’aveva trovato vuoto.

Era una mattina luminosa e pulita, perché la notte aveva piovuto. Una pioggia intensa e fragorosa, ma senza tuoni, né lampi a rischiarare il cielo cupo. Javier si era rigirato nel letto fino a notte tarda, chiedendosi come mai il rumore delle fronde lo disturbasse tanto. Sbatacchiavano agitate dal vento, bussando incessantemente al vetro della porta-finestra come un ospite inatteso, inzuppato e impaziente. 

Un lampo però c’era stato, o forse Javier l’aveva solo sognato. Un improvviso bagliore d’un blu profondo aveva disegnato un viso tra le nuvole, un viso immenso con degli occhi lucenti e accigliati.

No, l’aveva sicuramente sognato, decretò Javier scrutando fuori dalla piccola finestra. Alla luce del sole appena nascente le strade, divenute fiumi di fango, sembravano d’oro. Forse era stata una scena simile, apparsa agli occhi increduli di un antico marinaio secoli prima, a suscitare la leggenda di Eldorado.

Ma l’illusione non durò che qualche minuto, e quando il sole salì il fango tornò a essere tale. Javier scosse la testa. «Via le leggende, e spazio alle prebende» mormorò a se stesso lasciando la finestra. Un motto che sapeva di modernità, che più volte aveva usato per rassicurare i braccianti, scacciando con un gesto le loro superstiziose proteste. 

Null’altro che favole da bambini, aveva sempre affermato con virile confidenza. 

Javier manteneva un educato distacco dalle faccende religiose, sicuro che se non si curava di dei e demoni, loro non si sarebbero accorti di lui. 

E, nonostante gli fosse sempre parso di sentire come un soffio leggero accarezzargli la nuca, nessuna Orixá l’aveva mai punito per aver vibrato il primo colpo d’ascia, o tranciato un ricamo di liane, o calpestato un fungo a forma di casetta. Una volta fatto il primo passo, la superstizione evaporava, come i patemi dei suoi uomini che riprendevano finalmente a lavorare.

Javier versò una manciata di chicchi bruniti in un macinino a mano. Girò la manovella di ghisa nera mantenendo una velocità placida e costante, accelerando solo verso la fine, per ottenere un pizzico di polvere più fine che bilanciasse l’aroma. 

Caricò una moka piccola e malconcia. Era un affarino brutto, con un coperchio che cigolava e il manico traballante, ma faceva il migliore caffè che Javier avesse mai bevuto.

Proveniva dal vecchio continente, o così gli aveva assicurato il buffo straniero che anni prima l’aveva barattata con un pranzo e due caschi di banane. A dirla tutta, Javier aveva offerto il cibo senza chiedere nulla in cambio, spinto dalla generosità e dalla pena che gli aveva fatto l’ometto, sperduto e gesticolante in mezzo al mercato. Ma questi aveva insistito, e con un sorrisino indecifrabile aveva balbettato in un portoghese smozzicato che “un cuore onesto non rifiuta un regalo sincero”.

A Javier capitava spesso di ripensare allo straniero, mentre aspettava che il caffè salisse, e così fece anche quella mattina.

Si domandò se le notti erano altrettanto piovose nella sua lontana terra d’origine, e cosa vedevano lì gli uomini al mattino. Aveva sentito parlare di città scintillanti come perle, di torri oblique, e di fontane grandi quanto piazze intere.

Il borbottare della moka dissolse quelle immagini esotiche, e riportò Javier nella sua casetta di Secondo.

Versò il caffè in una tazza di ceramica annerita dall’uso, e prese dallo scaffale il barattolo dello zucchero.

Era vuoto.

Javier sospirò. Stava proprio invecchiando, in altri tempi non si sarebbe dimenticato di rabboccarlo quando iniziava a scarseggiare. Sbatacchiò nella tazza le ultime briciole rimaste sul fondo. Era poco, ma meglio di niente. 

Assaggiò il caffè e fece una smorfia. Si era dimenticato di quanto era amaro, molto di più di quello che servivano nei bar, quando ancora la gente li frequentava. 

Javier continuò a sorseggiare piano, e nel mentre pensò alla strada che avrebbe preso quella mattina, e se poteva passare a prendere un poco di zucchero.

Il mercato era a cinque minuti dall’hacienda, e avrebbe potuto raggiungerlo con una breve deviazione. Ma Javier aveva sviluppato un gusto particolare per uno specifico muscovado, prodotto da una famiglia contadina di ascendenti indigeni. La matrona, che si faceva chiamare Evita, era un donnone dal profilo rotondo e dalle parole posate. Nei suoi occhi Javier aveva scorto l’imperturbabile solidità della pietra, e forse anche lei aveva visto qualcosa in Javier, perché non l’aveva trattato con il tipico freddo distacco che riservava ai non nativi, anzi. Una volta, una unica volta in svariati anni, gli avevano perfino offerto una cioccolata.

Javier ricordava spesso anche quell’evento, mentre faceva colazione. Quella mattina rammentò vividamente una ciotola di terracotta piena di una cioccolata grezza e fumante, che sapeva di terra e accartocciava la lingua. Rammentò anche le risate di Evita di fronte ai suoi tentativi di dissimulare una smorfia. “Avete il palato da bambino, voi uomini nuovi” aveva detto la donna, ma aveva anche tirato fuori una coppa di terracotta, colma di un muscovado divino. Aveva reso la cioccolata molto più che bevibile, gustosa perfino, e Javier se ne era innamorato subito. Evita si rifiutò di rivelare il metodo di produzione, sentenziando che lo stesso popolo che ha perfezionato l’arte di uccidere non può comprendere quella di vivere, ma accettò almeno di rifornire Javier in cambio di frutta e favori mai riscossi né reclamati.

Con un cipiglio sempre più profondo, Javier calcolò che gli sarebbe servita almeno una mezz’ora per raggiungere la casa di Evita.

Non era il tempo a crucciarlo però, ma la geografia. La casa dei contadini era dalla parte opposta del paese rispetto all’hacienda, e se normalmente riusciva a inventarsi qualche impegno di lavoro che lo portasse nei paraggi, quel giorno non aveva nulla di plausibile.

Si domandò quale scusa avrebbe potuto accampare, se fosse stato fermato. Come avrebbero reagito i soldati se gli avesse detto la verità? Che stava andando a prendere un barattolo di zucchero, a fare quattro chiacchiere con degli amici?

La risposta giunse rapida alla mente di Javier. Avrebbero reagito male. Avrebbero fatto il loro dovere. L’avrebbero certamente multato, forse perfino arrestato. Dopotutto di quei tempi non ci si poteva permettere di rischiare per dello zucchero, per delle chiacchiere. Non fintanto che i terroristi imperversavano per il paese.

Javier si accorse di star stringendo i denti abbastanza da farsi dolere la mascella. Odiava i terroristi, come tutti d’altronde. Più d’una volta il boato di un’esplosione gli aveva sconquassato i timpani, mentre lavorava all’hacienda. Lui ne era sempre uscito indenne, ma aveva stretto le mani di molti -troppi- suoi amici mentre esalavano gli ultimi respiri, e rantolavano le ultime raccomandazioni. Fa che mia sorella si occupi dei miei figli, di’ a Juan che i nostri dissapori sono svaniti e i debiti cancellati, ricorda a mia moglie che l’ho sempre amata. Queste e tante altre suppliche Javier aveva udito, e mai mancato di eseguire alla lettera, perché negli occhi di quegli uomini scorgeva sempre il bagliore dell’oro, e ben sapeva che a nessun mortale è permesso di rimirare la città d’oro e vivere per raccontarlo.

Javier scacciò dalla mente quei cupi pensieri, e si concentrò su cose più concrete. Si domandò se davvero valesse la pena rischiare, mentre indossava una bella camicia di cotone candido. Ma rischiare cosa? Non un attacco dei terroristi. Non assalivano i viandanti solitari, preferendo concentrarsi su grossi assembramenti di persone, preferibilmente al chiuso, dove i loro ordigni potevano fare il massimo danno. 

La casa di Evita era un luogo chiuso, riflettè Javier, e la sua famiglia era numerosa, ma immaginandosi seduto al loro tavolo non provò lo stesso brivido freddo che sentiva quanto pensava alle sale dell’hacienda, piene di muscoli e frutta e sudore.

No, realizzò Javier, non erano i terroristi che temeva. Non quanto l’esercito. Lo stesso, eroico esercito che si stava adoperando senza sosta, giorno e notte, per combattere i dissidenti e purificare il paese estirpando fino all’ultima cellula clandestina.

Javier rispettava i soldati, come tutti non poteva fare altrimenti, ma ne criticava i metodi. Reputava la legge marziale un provvedimento eccessivo, e pensava fosse profondamente ingiusto costringere tra quattro mura un’intera popolazione. Sopratutto credeva che soffocare l’istinto dei giovani di correre liberi ed esplorare i dintorni fosse un atto di crudeltà.

Inoltre, erano giunte voci inquietanti alle sue orecchie. Voci di giovani fermati mentre passeggiavano per strada senza un reale motivo e per questo scomparsi per sempre nel buio di una camionetta. Voci di vicini delatori e di ragazze trascinate urlanti in un furgone nero alle prime luci dell’alba, ree soltanto d’aver alimentato una fiamma ben più nobile dei focolai che il coprifuoco mirava a estinguere.

«Sono solo voci» si disse Javier, che negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine di pensare ad alta voce. Col coprifuoco incontrava altri esseri umani solo in hacienda, e lì c’era troppo frastuono per parlare, così si faceva compagnia da solo. Sono solo voci, pensò ora silenziosamente, ma non riuscì a crederci fino in fondo. Percepiva ogni giorno gli sguardi pieni di desiderio e invidia, ma anche terrore, che i vicini grandi e piccoli gli lanciavano quando attraversava la piazza per andare al lavoro, e aveva altresì sentito la soddisfazione nella voce dei soldati trasformarsi in delusione, quando constatavano la regolarità dei suoi documenti dopo averlo fermato con le armi spianate.

Javier sistemò il colletto della camicia, e lanciò uno sguardo al barattolo vuoto. «Solo voci» disse ancora una volta. Nate da un periodo difficile per tutti, pensò. Dopotutto, erano i terroristi i veri nemici del popolo, non i suoi stessi soldati.

Forte di tale convinzione, Javier decise di uscire in largo anticipo, e di non dirigersi subito verso l’hacienda.

Nonostante camminasse con aria tranquilla e passo determinato, Javier non riusciva a togliersi di dosso l’impressione di star commettendo un reato. Formalmente, lo stava effettivamente facendo, ma non c’era malizia nel suo intento, di ciò era convinto. Ma la legge non si applica agli intenti.

Javier si lanciò una furtiva occhiata alle spalle, mentre bussava alla casa di Evita. Le strade erano deserte, i balconi vuoti. Non poteva sapere se qualcuno lo stesse spiando da dietro qualche tenda, ma nei pochi minuti che rimase in attesa sui gradini nessuna sirena gridò, e nessuna camionetta giunse ad arrestarlo. 

Il vento portò il suono lontano di un bongo, e il lamento di una tromba. Qualcuno aveva ancora la forza di suonare, e Javier ne fu rallegrato.

La porta finalmente si aprì, rivelando uno dei tanti figli di Evita. Il piccolo, con la pelle scura e il naso ad arco convesso, invitò Javier a entrare e lo condusse direttamente in cucina, dove Evita sedeva al grande tavolo di tavole grezze, e versava della cioccolata in quattro ciotole.

Javier salutò, leggermente imbarazzato, e iniziò a scusarsi per la visita improvvisa ma Evita lo zittì con un gesto della mano ed un ampio sorriso. «Non preoccuparti, ti aspettavo.»

«A differenza di me» disse una voce con un forte accento straniero.

Il viaggiatore che tanti anni prima aveva pranzato da Javier sedeva al tavolo di Evita, sorseggiando cioccolata. Javier rimase a bocca aperta e lanciò un’occhiata stupefatta a Evita, ma lei lo ignorò. «A differenza di te» sospirò lei a metà tra il divertito e l’irritato, quindi indicò a Javier una sedia e una ciotola.

Javier prese posto, e annusò la cioccolata. Sapeva di terra e legno e spezie. La zuccheriera di muscovado era pronta al centro del tavolo, ma Javier non riusciva a distogliere lo sguardo dallo straniero. Era identico a come lo ricordava. Quali avventure aveva vissuto, e come aveva fatto a finire nuovamente lì in quel villaggio, in quella casa? Sapeva del coprifuoco? I soldati non sarebbero stati gentili quanto lo era stato lui, e non avrebbero apprezzato il suo gesticolare.

«Quindi, cosa ti porta da queste parti?» chiese Evita. Javier ritornò coi piedi per terra, e esitò qualche momento per riprendersi. Lo straniero prese la parola.

«Oh, passavo di qui e volevo assicurarmi che non volassero coltel-oh. Oh non dici a me. Scusa.»

Javier vide lo straniero abbassare lo sguardo sulla sua cioccolata, sotto quello stizzito di Evita. Che sentì poi virare su di sé.

«Io… ho finito lo zucchero, mi chiedevo se ne potevo prendere in prestito un po’.»

Evita annuì piano. «È già pronto. Ma devi farmi un favore in cambio.»

Javier fece una smorfia di stupore. In tutti quegli anni, la donna aveva sempre rifiutato ogni pagamento in qualsiasi forma. Javier non mancava di lasciare davanti alla porta qualche cesto di frutta e scampoli, ma formalmente, era sempre stato un prestito a lunghissimo termine.

«Ma naturalmente» disse subito, con convinzione. «Qualunque cosa.»

Nuovamente, Evita annuì solennemente. Quindi prese un sorso dalla sua ciotola, e lo straniero e Javier fecero lo stesso. 

«C’è una persona che devi conoscere. Non aver timore.»

«Oh, ma ci conosciamo già, è…» Evita fulminò lo straniero, che riprese a sorseggiare rumorosamente la sua ciotola, quindi fece un cenno. 

«Horón»

Dalle ombre emerse una figura, e per poco Javier non cadde dalla sedia.

L’uomo indossava pesanti stivali militari, e portava una folta barba nera. Gli occhi ardevano come rubini in un viso bruciato dal sole. Portava una pistola alla cintura e le tasche della mimetica erano gonfie di granate. Era un terrorista.

Javier trattenne un grido, e lanciò uno sguardo terrorizzato prima a Evita e poi allo straniero. Entrambi lo ignorarono, mentre il terrorista prendeva posto, e assaggiava la sua cioccolata come se si trovasse a casa sua. Per un singolo istante, Javier pensò con terrore che potesse essere proprio quello il caso.

«Salve» disse infine il terrorista. La sua voce era roca, il suo accento fortissimo e indigeno. Nei suoi occhi Javier scorse una bruciante volontà di uccidere. Un desiderio sanguigno e primitivo, ma scevro d’odio o rabbia.

«T-tu…» balbettò, incapace di trattenersi. «Vuoi ammazzarmi…»

Aveva parlato al terrorista, ma si era rivolto a Evita e allo straniero, nella speranza che facessero qualcosa.

Non fecero nulla. Il terrorista sorrise, e guardò Javier dritto negli occhi.

«Sì. Ma non sarò io a farlo.»

Javier si guardò attorno, temendo di sentire da un momento all’altro un sacco calargli sul viso.

«E nemmeno i miei compagni.»

«Non aver timore» disse Evita, e Javier si sentì in qualche modo rincuorato. La donna aveva aveva la situazione in pugno, o si comportava e parlava come se l’avesse.

«Ma… ma sono terroristi…»

Il terrorista sbuffò una risatina sarcastica.

«Vogliono sterminarci tutti… donne, vecchi e bambin-»

Il terrorista sbattè un pugno sul tavolo, facendo tremare le scodelle. «Nós não matamos crianças» scandì ruggendo.

«Ma… le vostre bombe nei luoghi affollati…»

«Dove abbiamo messo le nostre bombe, eh?» chiese il terrorista. Lo disse senza gridare, ma la furia ribolliva ancora. «Negli asili? Nelle scuole? Dimmi, uomo, quanti scolari sono saltati in aria questa settimana?»

Javier balbettò qualcosa, quindi si fece coraggio. Era sotto la protezione di Evita, o almeno così sperava, e sentì il caposquadra che era in lui agitarsi e protestare per il modo in cui stava subendo gli attacchi del terrorista. Si schiarì la voce, e raddrizzò la schiena.

«Nessuno, ma perché le scuole sono deserte, i bambini non possono uscire di casa. Mentre invece le fabbriche, quelle sì che saltano in aria un giorno sì e l’altro pure.»

«Hah!» esclamò il terrorista. «E perché le fabbriche sono piene e le scuole deserte, eh? Sai dirmelo questo?»

«Perché amiamo i nostri bambini, e vogliamo pro-»

«NO!» ancora una volta il terrorista sbattè il pugno sul tavolo, facendo sobbalzare lo straniero e sospirare Evita.

«I vostri bambini non corrono pericolo. Non quanto voi almeno. I miei compagni sono stati chiari coi vostri capi. Noi non uccidiamo bambini. E cerchiamo di andarci piano con le donne.» A Javier parve che il terrorista avesse aggiunto l’ultima come per nobilitarsi. Ma lo rendeva solo più vile alle sue orecchie.

«Certo, con le donne ci andate piano, ma per gli operai, nessuna pietà. Davvero onorevole.»

Il terrorista rise, ma Javier sentiva che era il suo turno di attaccare, e continuò. «Mi hai fatto molte domande, ora ne faccio io una a te. Perché? Perché volete spargere il caos, perché uccidere tutta quella gente?»

Il terrorista alzò le spalle. Quando parlò, il ringhio era sommesso, come se volesse mormorare. «Perché la goccia di pioggia cade dal cielo? Perché i tumbos si aprono per raccoglierla e dopo una settimana non sono che polvere?»

Lo straniero iniziò a dire qualcosa, ma Evita soffiò un avvertimento, zittendolo.

Javier rimase interdetto qualche momento, quindi rispose piano. «Perché così vuole madre natura.»

Il terrorista annuì, guardando Javier fisso negli occhi. «Credete che la vostra sapienza, le vostre armi vi diano il diritto di comandare. Non è così. Ci sono cose più potenti di un fucile. I vostri antenati hanno versato molte lacrime e bruciato molto incenso per impararlo. Ora tocca a voi fare lo stesso.»

«Stai dicendo che tutta questa disperazione, tutta questa morte, è inevitabile? Che non vi fermerete fin quando non avrete distrutto questo paese?» Javier sapeva che i terroristi avevano rifiutato ogni tentativo di intavolare una trattativa. Ma quella era la versione dell’esercito.

«No» disse il terrorista, ma lo disse piano stavolta, senza pugno sul tavolo. Finì di bere la sua cioccolata, e si alzò.

«Aspetta» esclamò Javier, che aveva mille domande da porre all’uomo. Vedere un terrorista da vicino, conversarci perfino, era una cosa che non si sarebbe mai nemmeno sognato, un’occasione che non voleva sprecare.

«Ho parlato abbastanza. Ora è il tuo turno di ascoltare.» L’uomo fece un cenno allo straniero e, sordo alle parole di Javier, abbandonò la sala.

Fu come se un incantesimo si fosse improvvisamente infranto.

I rumori della città rientrarono nella sala, assieme agli odori delle palme e del fango e alle risate dei bambini che giocavano in cortile.

«Beh, non è stato così terribile, no? Dopotutto sei ancora vivo.» Lo straniero sorrideva di quel sorrisino ancora indecifrabile.

«Non so per quanto ancora» mormorò cupo Javier. «Per quanto ne so, potrebbe aspettarmi dietro l’angolo con la pistola spianata.»

«No. Non avere timore» disse Evita, imperturbabile come sempre. «Manterrà la sua parola. Non comprende il sotterfugio.»

«È un essere semplice, a suo modo. Forse troppo» aggiunse lo straniero.

Bevvero in silenzio, ognuno immerso nei suoi pensieri. Quindi lo straniero prese congedo, e Javier capì che era giunto il momento di fare lo stesso. Con un tuffo al cuore si rese conto di non avere idea di quanto tempo era passato. Avrebbe fatto ritardo in hacienda, e fornito ai suoi uomini un pessimo esempio e un pericoloso precedente. 

Salutò Evita, ma lei gli chiese di aspettare un secondo, e scomparve dietro una tendina.

Riemerse con un contenitore di terracotta, che consegnò a Javier mentre lo accompagnava alla porta. Javier percepì l’odore caratteristico del muscovado, e ringraziò sentitamente.

Appena varcata la soglia però si ricordò di colpo e si voltò a metà dei gradini.

«Prima hai detto di un favore…»

Evita fece uno strano sorriso. Triste, ma anche soddisfatto. «Quando sarà il momento, camminerai per le strade d’oro, e andrai a prendere dello zucchero.»

Javier borbottò confuso, ma la porta si era già chiusa e non gli restò che voltarsi nuovamente e incamminarsi verso l’hacienda.

Quando Javier entrò nel cortile dell’hacienda trovò due camionette dell’esercito parcheggiate in malo modo nel piazzale di carico. Ebbe un tuffo al cuore, e si nascose il barattolo di zucchero dietro la schiena, rendendosi subito conto di quanto fosse stupido e infantile quel gesto.

Fortunatamente però, le camionette non erano lì per lui. Mentre le osservava impietrito una sirena suonò alle sue spalle, un vagito breve a modo di clacson. Si spostò, e un’ambulanza gli sfrecciò accanto. Javier capì, c’era stato un attentato. Aspettò di vedere i primi corpi senza vita sfilare fuori dall’hacienda, quindi tornò a casa. Quel giorno ormai era andato, ma dopo aver rimosso i cadaveri e ripulito un po’ sarebbero tornati a produrre. Dall’indomani stesso, probabilmente, tanto erano diventate efficienti le imprese di pulizie.

Ci volle un giorno più di quanto previsto da Javier, ma l’hacienda tornò ad aprire come se nulla fosse successo. Javier riprese a lavorare, ma anche a far colazione col caffè zuccherato. Non riuscì però a reimmergersi nella solita routine. Sentiva gli sguardi dei vicini trapanargli la schiena, e qualche volta ebbe perfino l’impressione di scorgere un terrorista occhieggiare da un cespuglio. Si sottometteva ai controlli con insofferenza sempre maggiore, e vedeva il suo foglio d’impiego diventare sempre più un marchio di dannazione invece che un attestato di libertà.

Poi, una mattina all’apparenza simile a tante altre ma che segnava il centesimo giorno dall’imposizione del coprifuoco, Javier attraversò la deserta Plaza do Marguerites senza incontrare la solita pattuglia. Si guardò intorno per qualche momento, chiedendosi come mai i soldati avessero saltato quello che era diventato un rituale giornaliero. Sentì dei rumori provenire da un vicolo, e si avvicinò a indagare.

Una rosa, rossa e morbida, giaceva all’entrata del vicolo, e al suo fianco un numero di fogli pieni d’una scrittura grossa e irregolare. Javier ne scorse qualche parola, erano versi in rima. Dal vicolo venne un tonfo soffocato, e Javier accelerò sentendo un’improvvisa e inspiegabile urgenza.

Due soldati si ergevano di fronte a un ragazzo, piegato in due con le mani strette al ventre. Uno dei soldati rise, e spinse il ragazzo sbattendolo al muro. «Cosa pensi, che una puttanella ti metta al di sopra della legge?»

La risposta, se anche venne pronunciata, fu interrotta dallo schiocco di un manganello e un gemito di dolore.

Senza quasi rendersene conto, Javier si trovò a soppesare un grosso sasso. Lo guardò inorridito, quindi tornò ai soldati. Tra le loro spalle scorse un viso coperto di sangue, e ne incrociò lo sguardo. In due occhi d’un blu infinito scorse onde oceaniche bearsi dell’estate, e risate argentine rincorrersi tra campi di lavanda. Vide un pugnetto tozzo e minuscolo afferrare delle ciocche dorate con un gioioso “babda!”, e lo sfrigolio delle pannocchie tra le braci. Su tutto ciò, Javier vide però incombere l’ombra nera di un manganello, sempre più grande, sempre più oscura. 

Senza più esitare tirò indietro il braccio, prese la mira, e scagliò il sasso con tutta la forza di cui era capace. Che non era poca, poiché il lavoro all’hacienda ne aveva indurito il corpo molto più che il cuore. 

Il proiettile colpì il soldato in piena nuca, ma prima che questi finisse di accasciarsi al suolo, Javier correva già verso il collega.

Si stava ancora girando, pieno di sorpresa, quando Javier lo afferrò per il bacino e, con una tecnica affinata negli anni di discussioni con lavoratori eccessivamente focosi e arroganti, lo sollevò di peso e lo schiantò schiena a terra.

«Corri» disse al ragazzo scivolando nel tono di comando che usava all’hacienda. Questi recepì l’ingiunzione, e pur zoppicando un poco, si allontanò. Un soldato cercò di afferrare le sue caviglie, e Javier calciò via la mano. Sapeva di essere nei guai fino al collo, ma ciò non ne diminuì la furia. L’esercito doveva difendere il popolo, non vessarlo.

Il giovane riuscì a dileguarsi, ma i soldati si ripresero rapidamente e, nonostante Javier non fosse un peso piuma, non potè difendersi a lungo, e venne infine sopraffatto.

Lo trascinarono, non senza difficoltà, fuori dal vicolo e lontano dalla piazza. Giunse un’altra camionetta, altri soldati. Ma Javier non se ne curò. Gli sembrava di essere come in un sogno. Solo in un sogno infatti poteva succedere una cosa del genere. Solo in un sogno una dozzina di soldati potevano tenere sotto tiro un singolo civile disarmato, facendo a turno per colpirlo col calcio del fucile. Solo in un sogno il popolo doveva temere la giustizia, perché vestita di nero.

Lo sbatterono con le spalle al muro, gli gridarono se conosceva la pena per l’assalto a un soldato, e sopratutto per la violazione del coprifuoco. La mano di Javier andò verso il taschino che conteneva i documenti, ma si fermò al petto, e le labbra spaccate rimasero silenti.

Ordini furono gridati, una discussione, forse, sollevata. Poi i soldati si allontanarono dal muro, e Javier vide una dozzina di fori, tondi e lucenti, occhieggiare verso di lui. Vi scorse la morte dentro, e chiuse gli occhi.

Sentì il crepitare di un tuono, e credette di vedere un lampo dietro le palpebre serrate.

Quando riaprì gli occhi, i soldati erano spariti. C’era un gran vento però, e una fitta pioggia nell’aria. Anche il sole era scomparso, al suo posto una striscia larga e luminosa si estendeva da un capo all’altro del cielo. Emanava una luce calda e dorata, che si rifletteva su strade e mattoni anch’essi d’oro.

La confusione di Javier durò un momento appena, quindi si incamminò verso casa.

Arrivò completamente zuppo, ma non ci fece caso. Sentiva la pioggia, ma non l’acqua e il vento non lo raffreddava. Inoltre, non c’erano nuvole a oscurare la striscia nel cielo.

Sbirciò dalla finestra e vide se stesso rigirarsi nel letto.

Bussò insistentemente alla porta. Voleva svegliare quell’uomo, gridargli che la giustizia non nasce da un proclama, che la verità non è solo quella ripetuta dalle radio, ma quella sussurrata clandestinamente. Voleva sedersi al suo tavolo e raccontare per ore, e far buon uso della chiarezza di pensiero e dell’infinita sapienza che sentiva possedere.

Ma lui si rivoltò ancora una volta e si mise il cuscino sul capo, e Javier capì che, come aveva detto anni fa lo straniero nel suo portoghese smozzicato,  “ci son cose che non puoi dire dicendole a parole”.

Attraversò quindi la soglia di quella che dopotutto era casa sua. Si diresse allo scaffale della cucina, e aprì il barattolo dello zucchero. Ne conteneva un paio di cucchiaiate. Versò i granelli sul bancone, li premette fino a renderli una pallina appiccicosa ma aromatica. La intascò. Quindi ripose il barattolo.

Pedro Medélez fu l’ultimo ad abbassare il fucile, e lo fece comunque con riluttanza.

Non credeva nelle favole, ma gli era parso di scorgere qualcosa nel viso del criminale. Una serenità inappropriata per uno che sta per morire, e forse qualcosa di più. Inoltre, sulla sua bella camicia di cotone non erano sbocciati i fiori scarlatti, e non si era accasciato come un sacco di patate. Il criminale aveva raggiunto il terreno quasi con calma, come un bracciante che si distende dopo una giornata di duro lavoro. Segno, almeno per Pedro, che doveva essere sotto l’effetto di chissà quali droghe e quindi, un vero e proprio terrorista pronto a tutto.

«Medélez, certifica» comandò il sergente, e Pedro esitò solo un istante prima di avvicinarsi al corpo. Lo stuzzicò con la canna del fucile. Quello, ovviamente, non si mosse.

In mezzo al puzzo del fango e della polvere da sparo Pedro sentì levarsi come un odore dolciastro, di zucchero. Un aroma che gli ricordò le mattinate d’infanzia, passate a correre ed esplorare con il suo sterminato stuolo di cugini, perché tutti erano tuoi cugini quando qualunque adulto era per te zio o zia. Ricordò le caotiche tavolate, e le spedizioni clandestine alle distillerie di rum, e gli elaborati piani per distrarre gli adulti e pucciare frutta e biscotti nei grandi vasconi di melassa.

«È andato. Tutto regolare, è tutto a posto.» rispose al sergente. Il tono era asciutto, sicuro. Ma forse, per la prima volta da anni, Pedro sentì come un dubbio, un imbarazzo nel pronunciare quelle parole.

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Qualche nota sull’autore

Sono Alessandro, studio informatica ed è forse per bilanciare la sua precisa rigorosità che mi affascina il mondo dell’immaginario e del fantastico. Cerco di tenere i piedi per terra e la testa fra le nuvole, impresa non facile con una statura tipicamente sarda. Sempre dalla Sardegna ho ereditato anche l’amore per il sole e per il ‘contàre’, che è qualcosa di più profondo del semplice ‘raccontare’.

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